Genepì

nizza Di fiore in fiore Genepì, la più piccola delle Artemisie per un grande liquore.

È una pianticella di Artemisia, della famiglia delle Composite, che cresce spontanea ad alte quote in montagna e si sviluppa nei pascoli sassosi tappezzando con ciuffi argentei gli impervi dirupi alpini fino ai 3000 metri delle nostre Alpi Marittime e Cozie. Difficile raccoglierla per l’irraggiungibilità dei siti e, giustamente protetta da normativa, vien utilizzata da abili montanari che ne tagliano le sommità fiorite, riunite in forma di spiga color giallo, con un coltellino a roncola che non ne danneggi il minuscolo apparato radicale così da evitare l’estinzione di questa preziosa specie. Ritualità questa che rimanda ad altre storie – come la raccolta del vischio col falcetto d’oro da parte dei Druidi – a connotare un autentico rispetto verso la natura che si esprime nella sacralità del gesto di chi ad essa si accosta per farla propria.

In Piemonte e in Val d’Aosta, per tradizione, è la base dell’omonimo liquore: il Genepì, amaro-tonico dal sapore particolare di fresca e intensa gradevolezza, ottima bevanda alcolica come aperitivo e vermouth, sia per stimolare l’appetito sia come digestivo. Un tempo, preziosamente serbato in tutte le case per la stagione invernale, era ritenuto indispensabile per combattere il freddo ed evitare il congelamento. Dato l’uso familiare, le ricette tramandate per la preparazione del Genepì variano una dall’altra per tempi, dosaggi e impieghi della pianta, pur rimanendo costanti i principali componenti del liquore: fiori e foglie, freschi o seccati, alcol a 95°, acqua e zucchero. Dalla narrazione degli anziani il Genepì era poi ritenuto un eccellente rimedio per il cosiddetto ‘mal di montagna’, che, negli individui sensibili alle altitudini più elevate, si manifestava con sintomi di vario tipo quali nausea, vertigini e giramenti di testa. Le varietà lessicali più usuali da noi sono ‘genepin’, a Limone ‘èrba argenta’ e a Entracque ‘argentina’.

Il Genepì è la più piccola delle Artemisie, nella botanica popolare distinte anche in ‘mascle e fumela’ cioè maschio e femmina, di cui si contano numerose varietà pregiate per tisaneria e liquoristica, tra cui le ‘pontica’, ‘glacialis’ e ‘absinthium’.
Quest’ultimo, comunemente nota come Assenzio, fin dall’antichità, per le sue apprezzate proprietà terapeutiche, veniva offerto in premio ai vincitori delle gare fra le quadrighe in Campidoglio (Plinio). Anche detto ‘Erba Santa’ in quanto dispensatore di salute e virilità nonché dell’incorruttibilità materiale e spirituale, ancor oggi ci accompagna nei nostri brindisi con l’ormai millenaria esclamazione: ‘Alla salute!’ o ‘A la santé!’. D’altro verso, come emblema di amarezza esistenziale espressa nel metaforico“amaro come l’assenzio”, ha dato il proprio nome ad una bevanda ritenuta intossicante di cui fecero uso celebri letterati e artisti nel primo Novecento per alterare il proprio stato di coscienza a stimolo della creatività. Celebre il quadro di Degas che ritrae individui sotto l’effetto di quella che vien pure menzionata come Erba dell’oblio viste le gravi conseguenze neurologiche originate dal suo uso protratto.

L’Artemisia ‘ vulgaris’ è, tra tutte, la più comune e diffusa, dai monti al mare nei terreni poveri e incolti, lungo i margini di strade o nelle vicinanze di ruderi dove cresce spontanea e vivace, senza nulla chiedere, superando anche il metro in altezza. Molto ramificata, facilmente distinguibile dall’assenzio, già nel suo nome – dall’aggettivo greco ‘artemés’ – sano/integro-, e da ‘artemia’ che significa ‘buona salute’- si connota come pianta medicinale. E, proprio in virtù delle sue riconosciute doti digestive, toniche, regolatrici del sistema nervoso e soprattutto del flusso mestruale, si è guadagnata a buon diritto il titolo di rimedio principe dei disturbi femminili. Erba delle donne e pianta lunare dedicata ad Artemide detta anche Selene o Diana, casta dea della Luna e delle foreste, che per prima l’avrebbe scoperta – secondo la teoria delle segnature- è adatta a risolvere problemi di salute connessi ai liquidi corporei (sangue e linfa). Ma è anche tra le principali erbe di San Giovanni, chiamata anche ‘Corona di San Giovanni’ bruciata scaramanticamente nei falò ‘scacciadiavoli’ durante i riti del solstizio. Presso gli antichi greci veniva utilizzata per curare l’epilessia, detta ‘mal della luna’ forse per la ciclicità sintomatica di questa malattia.
Simbolo augurale di buon viaggio, veniva dipinta sulla portiera delle carrozze come simbolo apotropaico per scongiurare gli incidenti stradali, uso passato poi alle automobili fino al 1930 (Cattabiani). Come ci riferisce l’ Herbarium Apulei del 1481, fin dall’antichità si consigliava ai viandanti di portarne con sé un ramo per non sentire la fatica ed essere protetti durante il cammino, sia in senso fisico che spirituale.

Gloria Tarditi