Capelli belli, venite parone

Provenzale Da Elva al Friuli sulle orme di «pelassìers» e «cjavelârs»

La storia famosa dei raccoglitori e venditori di capelli di Elva mancava ancora di un tassello, le testimonianze di chi li “produceva”: e per conoscere questo aspetto poco noto il regista Fredo Valla si è recato insieme al collega triestino Nereo Zepier nei paesi d’origine dei capelli bellissimi che ornavano le nobili teste – pelate e non – dei ricchi di mezzo mondo. Lì ha raccolto in un documentario «Cjavelârs e_Pelassìers» le storie di quei tempi grami in cui la miseria costringeva i montanari di tutto l’arco alpino ad arrangiarsi e le donne, come spesso succede, davano una… mano non indifferente.

“Il racconto è condotto su due registri, prima quello dei raccoglitori poi quello dei venditori, o meglio le venditrici” dice Valla, premettendo che quando si parla di «cavié» si intende un termine non corretto in quanto piemontese, il «cavej»; in occitano il totalmente diverso «lou pel», in friulano il più simile «cjavel». In auge fino agli anni ’50, il «capellaio» partiva da Elva a Codròipo (Udine), paese un po’ più grande di Dronero, percorrendo quella che si può definire la via della seta umana, mesi di viaggio, qualche lettera a casa. Quasi tutti gli elvesi lavoravano il prezioso elemento esportandolo in tutto il mondo. “In Inghilterra i lord volevano i capelli bianchi. Il mercato era più facile in America, meno pretese, gli Americani sono fatti… con la piòt!” commenta un anziano pelassìer. I capelli umani, che non marciscono, venivano usati anche per le gomene delle navi, integrandoli con la canapa.
Quando arrivavano i piemontesi, per le vie di Codròipo era tutto un raccomandare alle ragazze di non mostrare i capelli. “In paese chiamavano le donne per la vendita: parone! Parone! Ma noi non capivamo il loro dialetto, e nemmeno si usa da noi chiamarci così, forse volevano farsi sentire meno estranei, poi però fra loro parlavano alla vostra maniera” dice una testimone ex venditrice. Vendevano i capelli per un pezzo di tela, di stoffe per vestiti in quella Carnia arida e povera. Con un chilo (ma quante teste per un chilo?) una famiglia stava benino per un po’. Tante piccole storie di chi vendeva, le ragazzine piangenti, la vergogna di mostrarsi col fazzoletto in testa. “Una donna veniva picchiata dal marito quando lui dubitava che avesse speso i suoi soldi, si è fatta rapare e poi gli ha detto, allora di chi sono questi soldi adesso?” E i soliti pettegolezzi. “Quando un bambino nasceva senza padre, si diceva fosse figlio del cjavelar…”
I quali poi, dopo i misfatti (anche quelli, forse) tornavano a Elva per la festa di s. Pancrazio col meraviglioso carico per la lavorazione. I capelli del nord – in particolare friulani ma anche val d’Aosta, appennino parmense – erano famosi per la loro bellezza, il colore chiaro, la finezza: molto più pregiati di quelli meridionali, più spessi e scuri; guardare certe foto d’epoca di fanciulle con chiome ondulate lunghe fino alle ginocchia, anni e anni di cura e crescita, poi sacrificate all’altare della vanità dei ricchi, stringe il cuore.
“Il film”, conclude Valla “è stato anche un esperimento perché è il primo film in lingua occitana e friulana, con sottotitoli in italiano. Siamo convinti di avere fatto un lavoro utile per la salvaguardia di lingue e tradizioni locali, ma anche per permettere alla gente di esprimersi non solo coi linguaggi del passato, ma anche usare i nuovi mezzi in modo fruibile”.

M. Teresa Emina F. Valla e N. Zepier
«Cjavelârs e_Pelassìers»
Ed. Chambra d’Oc, 2012

http://www.chambradoc.it
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