Mairaviglie

Mairaviglie Fra Stroppo e Caudano c’erano novemila passi di ragazzino, diciottomila contando anche il viaggio di ritorno. A ripensarci ora, che quella strada la facevamo da soli di notte, fa quasi paura. In certi passaggi correvamo sul filo del precipizio; ogni tanto sentivamo qualche piccolo sasso staccarsi, rimbalzare in mezzo alle rocce e poi sparire nell’abisso. Non arrivava neppure il rumore dell’impatto sul fondo, tanto era alto quel salto.

Noi però non ci facevamo granché caso, anche perché il buio nascondeva i pericoli, e veloci calpestavamo la neve e il ghiaccio, sforzandoci di vedere le prime case man mano che ci avvicinavamo.
Il lazzaretto era pieno degli spiriti di vecchi appestati e di lebbrosi. Bastava stare in silenzio per dieci minuti davanti alla facciata, a fissare nel cielo il gigante Orione con la sua spada scintillante, e le anime iniziavano ad uscire dai ruderi lente, appena luminose, simili alle nuvole quando le sorprende l’aurora. C’era l’eterna promessa sposa, portata via e ricoverata poco prima di andare all’altare, perché qualcuno aveva scoperto sul suo corpo gli inequivocabili indizi della lebbra. C’era il valoroso capitano di ventura, tornato vittorioso dalla sua guerra, celebrato con tutti gli onori la sera e la mattina portato a Caudano, con la febbre altissima e i segni della peste. C’era il vecchio prete che aveva pagato cara la sua ostinazione nel visitare i malati, nel confessarli e nel dar loro la comunione. A forza di comunioni, quelli avevano messo in comune con lui anche le malattie, e così anche il sacerdote aveva dovuto prendere casa nel lazzaretto.
A me piacevano gli spiriti degli appestati. Parlavano come se abitassero in un eterno presente. Il capitano di ventura credeva che i suoi uomini ancora lo stessero aspettando, di stanza a Paschiero; la promessa sposa si preoccupava di cosa stesse pensando il marito, visto che lei ci metteva così tanto ad arrivare; il vecchio prete continuava a ripetere che c’era la campana da aggiustare, che quella brutta crepa nel bronzo prima o poi le avrebbe impedito di segnare le ore.
Ma la cosa che più amavo sentire raccontare era la storia dello stregone. Nessuno, fra i ricoverati nel lazzaretto, era mai riuscito ad andar via. Guarire era impossibile, e impossibile era pure fuggire: la strada praticabile era una soltanto, e a metà c’era un drappello di armati che a turno tenevano sotto controllo il confine fra malattia e salute.
L’unica eccezione, l’unico che aveva lasciato Caudano da vivo, era stato lo stregone. Ma non era fuggito attraverso la strada, era passato “per di là”. E dicendo “per di là”, gli spiriti indicavano l’abisso. Un giorno l’avevano visto allontanarsi, camminando nell’aria, o forse su un filo invisibile, e attraversare tutta la valle così sospeso, fino all’altro versante, ai boschi intricati e freddi. Durante il suo passaggio attraverso il cielo, ogni tanto si era girato verso gli appestati, facendo qualche segno, come a dire “seguitemi”. Il vento pareva volergli strappare i vestiti di dosso, ma lui sorrideva, forse li chiamava.
Nessuno di loro si era mosso; erano tutti animali di terra, con i loro corpi pesanti, le loro vertigini, le zavorre delle loro malattie. Così erano rimasti al lazzaretto, mentre lo stregone era tornato libero. Da appestato, non poteva che vivere nascosto, e così aveva preso casa nei boschi. Il versante opposto, fino alla strada di Marmora, è quasi un deserto di alberi, un enorme labirinto: e là lui si era costruito una baracca sospesa, che penzolava da una quercia. Ogni tanto mandava loro dei messaggi attraverso il suo falco addomesticato, e tutte le sere accendeva il fuoco in un piccolo campo libero dagli alberi, cosicché lo potessero vedere.
Questa era la leggenda dello stregone, così come la raccontavano gli spiriti del lazzaretto. E siccome nessuno di noi ci credeva, loro ci portavano in un punto in cui lo sguardo potesse spaziare e ci indicavano il versante opposto. Nel buio della notte, si poteva vedere, in lontananza, il chiarore di un fuoco. “E’ ancora vivo”, ripetevano gli spiriti, “dopo molti secoli vive ancora. Dalla peste non si guarisce, ma uno stregone sa convivere con le forze del male”.
Ce lo dicevamo sempre, fra di noi, che avremmo dovuto organizzare una spedizione nei boschi in cui brillavano le fiamme notturne, per scoprire se ci fosse davvero lo stregone, o qualche altro essere o fenomeno strano. Perché un fuoco non si accende da solo, almeno non tutte le sere.
Qualche tempo fa, una sera, mi è ancora capitato di passare per Stroppo e aver tempo di camminare fino a Caudano. Sono stato al lazzaretto; nel buio, sopra la mia testa, brillavano le stelle di Orione. Ma gli spiriti erano pigri e non uscivano: li sentivo lamentarsi appena da dietro i muri. Lontano, però, il fuoco brillava ancora.
Così, parlandone fra vecchi amici, abbiamo deciso di rifare ancora una volta quella vecchia strada, stasera, e di organizzare finalmente la spedizione nel bosco, per scovare lo stregone, o chi al posto suo abiti sul versante deserto.
L’aria è limpida, la notte è stellata, e Caudano è bella e decadente come sempre. Ma dall’altra parte il fuoco non brilla più. Ci guardiamo tristi e pieni di rimpianto. Quanto tempo sprecato prima di decidere: forse lo stregone alla fine è morto. O forse noi siamo diventati troppo vecchi per parlare con gli spiriti e percepire la magia. O forse tutte queste cose insieme: qualcuno di noi già sente freddo, qualcuno pensa al lavoro di domani e vuole andare subito a casa.
Il capitano di ventura, l’eterna promessa sposa e il vecchio prete ci ascoltano silenziosi mentre andiamo via.
Per la prima volta non sono più tanto sicuri che torneremo a trovarli.