Così scompare l’arte della valle

Galliana Biazaci Nei giorni scorsi sono stato alla borgata Galliana di Cartignano. Questa borgata era molto interessante perché la parte che si affaccia verso la bassa valle era costituita da un notevole complesso di costruzioni medioevali

Una parte é stata incendiata nel 1944, ma molto restava ancora fino a quando ristrutturazioni effettuate alcuni anni fa hanno demolito la maggior parte degli antichi muri ed un affresco di Boneto. Allora una finestra gotica con i caratteristici sedili ricavati nello spessore del muro é persino stata ridotta in schegge a colpi di mazza con uno sforzo degno di miglior causa! Durante queste demolizioni é apparso un affresco quattrocentesco che è stato attribuito ai fratelli Biazaci e che rappresenta una Madonna in trono con la scritta gotica “… fecit fieri mEIfredus GAVIGLI ad laude dei et …”. Si trova su un muro di cui con grandi sforzi si è evitata la demolizione. Un adiacente pilone votivo con affreschi ottocenteschi del saluzzese Gauteri è invece stato abbattuto.
A poca distanza in una costruzione in rovina si trovano altri dipinti databili intorno al 1500 che rappresentano una Madonna intenta ad allattare e tracce di uno sfondo con fregi assai poco chiari ed una figura che sembra un guerriero in armatura. Purtroppo la costruzione su cui si trovano questi ultimi affreschi è ormai pericolante e invasa dalle sterpaglie, per cui è difficile e pericoloso avvicinarsi. Ho potuto constatare che mentre l’affresco è ancora nelle condizioni cattive ma restaurabili di qualche anno fa, lo stato dell’edificio è tale che in mancanza di un improbabile intervento la valle si avvia ancora una volta, nella più totale indifferenza, a perdere un elemento del suo patrimonio. Se si trattasse di una speculazione edilizia almeno qualcuno ci guadagnerebbe, ma qui si tratta di semplice incuria.
Mi si dirà che in questo periodo di crisi gli affreschi non sono il problema più serio a cui pensare. Se però consideriamo l’importanza del turismo nel futuro dell’economia della valle, non possiamo permetterci di perdere le sue principali attrattive.

Luigi Massimo

VALLE MACRA 1911 – Una guida per il presente

Guida valle Macra 1911 Sabato 20 Aprile 2013 si terrà in Via Roma a Dronero la giornata dedicata a
VALLE MACRA 1911 – UNA GUIDA PER IL PRESENTE

Sabato 20 Aprile 2013 si terrà in Via Roma a Dronero la giornata dedicata a VALLE MACRA 1911 – UNA GUIDA PER IL PRESENTE a cura e con la presenza del prof. PIERCARLO GRIMALDI, antropologo, rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, curatore dell’edizione in copia anastatica della guida di Giovanni Lantermino, edita nel 1911, ripubblicata dalle Messaggerie Subalpine nel 2012.

Alle 10.30 si svolgerà un incontro/dibattito sulle interessanti prospettive della Valle Maira con la partecipazione di Sindaci, Assessori al Turismo , Imprenditori locali, Associazioni di turismo ambientale.

Dalla mattinata saranno esposte foto storiche e nuovi scatti sulla Valle a cura di FotoSlow Valle Maira, e un panoramica di Realtà Economiche locali.

Nel pomeriggio ci sarà la presentazione ufficiale della Guida con letture dell’attore LUCA OCCELLI. In seguito si visiterà la saletta/museo della Tipografia.

Domenica è prevista la possibilità di visita guidata alle borgate del Comune di Marmora.

Questa la proposta degli amici dell’Isola che…c’è per l’Earth Day mondiale (che questo anno sarà lunedì 22 aprile)anche in relazione al comunicato della FAO per la prossima Giornata internazionale della montagna che si celebrerà il prossimo 11 dicembre:”Mountains – Key to a Global Green Economy” si comprende che la Valle Maira rientra nel tema:

”…. i beni e servizi della montagna sono primari per il raggiungimento di una ‘crescita verde’, ma sono crescenti le minacce per loro offerta sostenibile, crediamo che questo tema possa accrescere la consapevolezza sul perché le montagne siano importanti per un’economia verde e uno sviluppo sostenibile globale e come le nuove opportunità dovrebbero portare benefici alle regione montuose e ai bassi piani, invece di contribuire al degrado degli ecosistema montani”.

(dal comunicato della FAO).

La Democrazia dei Capi

Dmocrazia dei Capi Ce lo chiede l’Europa, lo impongono i mercati , quante volte abbiamo sentito queste parole dai Capi per giustificare scelte e decisioni impopolari, ma imposte da poteri esterni al contesto nazionale e a cui ci si deve per forza assoggettare, condizionamenti sempre più frequenti che indirizzano in modo etero diretto il processo decisionale e stanno man mano facendo evaporare il concetto di Sovranità Nazionale

L’Unione Europea è qualcosa di inedito sullo scenario internazionale, non è una organizzazione intergovernativa come le Nazioni Unite e non è una federazione di Stati come gli Stati Uniti d’America, per ora rimane un organismo “sui generis” a cui gli Stati membri delegano parti sempre più consistenti della propria Sovranità Nazionale.<br />
Per quanto riguarda la moneta o le politiche agricole e ambientali i suoi comportamenti sono quelli di una federazione, per gli affari interni si comporta come una confederazione, mentre per la politica estera si muove (..a fatica a dire il vero..) come una organizzazione internazionale.<br />
Per il concetto di Sovranità Nazionale, passatemi una lettura di tipo darwiniano, nel vecchio continente siamo di fronte ad un nuovo salto evolutivo di una soluzione organizzativa nata per mutazione genetica nel ‘600 da quello che per i Romani era il “summum imperium”.<br />
Se Illuminismo e industrializzazione ne hanno segnato i fondamentali, l’economia ha scandito il tempo del grande processo che ha portato agli attuali Stati-Nazione, avendo ben presente che tutti i grandi salti organizzativi sono figli di strappi dolorosi, rivoluzioni, guerre, grandi flussi migratori, crisi economiche internazionali. Tragedie insomma!<br />
La Sovranità Nazionale ora sta nuovamente mutando sulla spinta di nuove dinamiche conseguenti alla globalizzazione e speriamo che la politica questa volta sappia governarle in modo saggio.<br />
Fino ad ora si intendeva con essa la somma dei poteri che uno Stato indipendente esercitava in tutto il suo ambito territoriale, storicamente rinunciare ad essa in alcuni casi non è stato un problema, così è stato per gli Stati membri di uno Stato federale, per i cosiddetti “protettorati” e così via, ma in Europa è diverso, non dimentichiamo che l’Euro è nato prima di una unione politica vera e propria!<br />
Siamo di fronte a processi ancora informi conseguenti a fenomeni nuovi, ineludibili e indipendenti dalla volontà popolare, che continua a esprimersi eleggendo Parlamenti che si stanno svuotando di autorità, autorevolezza e potere, per questo affermo che siamo di fronte a una ridiscussione del concetto di democrazia che rimane legato a una situazione non più attuale.<br />
Ormai il mondo cammina su strade da altri e altrove per lo più tracciate, situazione resa in modo chiaro da Mario Monti il 24 novembre 2011 ” /> Piaccia o meno le cose stanno andando avanti così, ma se è comprensibile che siano sottoposti al controllo europeo i bilanci dei singoli Stati, come richiesto da alcuni, Germania in testa, qui nasce il problema.
Se si può accettare un sistema sovrannazionale che ci indirizzi, ma che ci renda più forti perché più numerosi e compatti, bisogna evitare la situazione in cui l’Europa unita sia diretta da una o alcune nazioni egemoni, mentre le altre ubbidiscono quando “l’Europa lo chiede”.
E questo non solo per la perdita di autonomia per gli Stati membri, ma perché chi prevale può avere la forte tentazione di gestire l’Europa a vantaggio proprio e scapito altrui, anche solo imponendo mentalità e abitudini che non sono a tutti connaturate. Un’ipotesi che somiglia tanto al contesto che si sta affermando e che va in qualche modo corretto.
Di fronte a queste mie convinzioni e vedendo, a dire il vero a volte subendo, una campagna elettorale che aveva l’obiettivo di conquistare seggi in un parlamento che governa su poche cose ormai, mi sono riletto le considerazioni di Gustave Le Bòn, per alcuni un cattivo maestro, che alla fine dell’ottocento scriveva che “..i capi non sono uomini di pensiero, ma d’azione…vengono reclutati soprattutto tra quelli nevrotici, esagitati, semi-alienati che vivono al limite della follia…”1.
Confesso che ultimamente mi è tornata una gran nostalgia della Prima Repubblica, ma a ben vedere anche lì la conquista del consenso aveva percorsi discutibili:“ ..il saper lusingare, cosa che appare vergognosa e deplorevole in altri momenti della vita, è invece necessaria durante una campagna elettorale. Del resto la lusinga …. è indispensabile ad un candidato il cui atteggiamento, il cui volto, il cui modo di esprimersi, devono di volta in volta mutare per adattarsi ai pensieri e ai desideri di chiunque egli incontri…”2.
Non siamo però al tempo della prima repubblica finita nel ’94, ma in un’altra, sono consigli che nel 64 A.C. Quinto Tullio Cicerone dava al fratello Marco che si candidava al consolato in una più antica “prima repubblica”.
Anche allora le regole per acquisire il consenso e formare le assemblee di governo non differivano molto da quelle attuali, rassicuranti in questo caso le parole del solito Gustave Le Bòn:
“Le decisioni di interesse generale prese da una assemblea di uomini illustri, ma di specializzazioni diverse, non sono molto migliori delle decisioni che potrebbero essere prese da una riunione di imbecilli”.
E’ in atto un cambiamenti epocale nell’impianto istituzionale, iniziamo pure con la rottamazione del vecchio, ma intendiamoci su cosa sia il vecchio da buttare.
Non è questione di carta d’identità, il vecchio per me sono metodi di gestione del potere arrogante, un approccio affaristico alla gestione del Bene Comune, l’incapacità progettuale, la presunzione, la superbia e l’arroganza, la difesa ad oltranza delle sedie occupate e uno sterile quanto inutile virtuosismo polemico .
Non è una questione generazionale, questi comportamenti attecchiscono benissimo anche in gioventù, l’imbecillità non ha età, è un dono innato.
Su questi argomenti mi confrontavo e scontravo già con amici nel ’68, lontana gioventù, quando si contestava l’autorità dei “vecchi”, mentre per me sarebbe stato meglio pensare e ridiscutere regole e comportamenti lasciando da parte dati anagrafici per privilegiare etica, idee e progetti.
Solo due anni dopo lo spirito del ’68 era finito e i rivoluzionari di allora sono ora dinosauri inamovibili piazzati in ogni angolo e contro cui si sta scatenando una nuova lotta generazionale, mentre io continuo a essere convinto che pensare un avvenire possibile non è questione legata all’età, non è questione generazionale, è questione di intelligenza, buona volontà, etica e impegno e due grandi vecchi ci stanno dando una lezione magistrale di saggezza, il nostro presidente Napolitano e Benedetto XVI .
Sui loro atti e comportamenti vale la pena riflettere.Mariano Allocco
Marzo 2013

Sulle tracce della storia

Sentieri Sulle tracce della storia. Una guida e due guide sui sentieri partigiani

La storia si ripete sempre, come diceva Vico; e ciò che succede dopo un certo periodo diventa parte di storia, personale o collettiva. Ci sono eventi che nel bene e nel male non si ripetono più per molto tempo: uno di questi è la conquista della libertà di tanti popoli, più antica e stabile nel nostro continente, più recente e fragile nel resto del mondo. Ma il pericolo è sempre in agguato: nuovi fondamentalismi, razzismi, fascismi politici esasperati dalla crisi economica. Ripensare al passato serve a non perdere la bussola, a ricordare che anche quando tutto sembrava perduto la speranza ancora poté cambiare il mondo, e la ribellione che pure costò tanto sangue contribuì a fondare una nuova era.
Sui passi di chi ha combattuto noi camminiamo con una consapevolezza nuova: nell’ambito del progetto «Memoria delle Alpi» è stata inaugurata già qualche anno fa una rete di tragitti che uniscono le valli dove i partigiani operavano: diversi itinerari di bassa difficoltà, accessibili a tutti per ricordare e meditare sulle miserie e la pietà di un passato su cui è basata la nostra storia moderna. Per conoscerli tutti è inevitabile acquistare in edicola o libreria la guida «Sentieri della libertà in provincia di Cuneo» nella edizione tradizionale del 2011 o in una recentissima versione con fogli ad anelli, più comoda e leggera da maneggiare: si è interessati ad un certo percorso et voilà, basta staccare il foglio e portarselo nello zaino. In val Maira sono sette itinerari: gli anelli di Villar, Norat e Roccabruna – sede dei garibaldini di Acchiardi con campo base al rifugio s. Anna – e il versante verso la val Grana al colle s. Margherita con relativo rifugio, roccaforte di GL. Il libretto aggiunge nuovi particolari ai pannelli esplicativi che già popolano i sentieri nei tratti più panoramici ed abbina storia a cultura, per esempio consigliando a chi transita sul colle Liretta la gran classica visita a s. Costanzo.
Anche le guide turistiche e gli accompagnatori naturalistici sono attivi sul territorio e hanno programmato per aprile – maggio delle escursioni col patrocinio dell’ANPI. Ennio Belzuino dell’Associazione «Sulle Tracce della Natura» accompagna nell’area di Pesio – Stura e afferma che: “la nostra attività è volta non solo ad onorare il sacrificio di tante persone che lottarono per ideali universali di uguaglianza, fratellanza e libertà – da qualsiasi oppressore o manipolatore di masse – ma a ricordare che anche e soprattutto oggi questi valori non devono essere dimenticati o dati per scontati, pena un inaridimento delle coscienze e un individualismo manipolato a discapito della comunità civile.” Per Roberto Rubbini, altro socio che accompagna in val Maira – Varaita, “la scelta di effettuare queste escursioni è nel mio essere antifascista: in un periodo in cui le istituzioni danno un peso minore alla lotta partigiana ed alcuni tendono al revisionismo approfittando della scomparsa di tanti protagonisti (che non possono più controbattere) mi è sembrato opportuno seguire le loro orme, dove hanno combattuto e trovato la morte quei giovani patrioti sacrificatisi per fermare l’invasore e il fascista. Grazie a loro si è scritta la nostra Costituzione invidiata in tutto il mondo.”
Resta una domanda, un dubbio: perché i nostri connazionali che credettero nella libertà del proprio paese sono chiamati partigiani, in altre parti del mondo terroristi?

M. Teresa Emina

«Sentieri della libertà in provincia di Cuneo» Ed. +Eventi – 2011-2012, € 18.
«Sulle Tracce della Natura»
Ennio Belzuino cell. 338 – 2461123
Roberto Rubbini cell. 328 – 5609946

La cittadinanza “benemerita” allo storico del Cuneese

Camilla Ad un anno dalla morte di Piero Camilla, la cittadinanza “benemerita” allo storico del Cuneese

Sotto le austere colonne gotiche della chiesa di San Francesco a Cuneo lunedì 11 marzo con una solenne cerimonia il Consiglio comunale ha insignito il professor Piero Camilla, della “cittadinanza benemerita” alla memoria. La consegna è avvenuta nella ricorrenza del 1° anniversario della sua morte.
Egli era stato il fondatore e primo direttore della prestigiosa biblioteca comunale della città; il luogo, ove chi scrive, come un gran numero di suoi coetanei, erano soliti andare settimanalmente a prendere a prestito quei libri di cui a scuola si veniva a conoscenza ed il cui acquisto era un diletto che alla fine degli anni ’50 erano in pochi a poterselo permettere.
Ma fu con l’avvento della scolarizzazione di massa degli anni ’60 che la biblioteca di Cuneo diventò la meta abituale, dove studenti, insegnanti, comuni cittadini si incontravano ed i libri passavano di mano in un vortice veloce. Erano anche gli anni della straordinaria scoperta della letteratura americana, ai cui orizzonti la biblioteca prontamente aveva aperto i propri scaffali, mettendo in movimento un lento processo di sprovincializzazione i cui frutti non tardarono a maturare alla fine degli anni ’60
Quelli furono anche gli anni in cui il professor Camilla cominciò a tessere un disegno ambizioso: quello di non limitarsi all’ orticello culturale della piccola Cuneo, circondata da un territorio vastissimo ed in gran parte estraneo alle fantasie della cultura, chiuso nel ristretto orizzonte del proprio campanile.
Prendeva così il largo il suo progetto: far diventare la biblioteca di Cuneo il vertice di una rete di piccole biblioteche, facendo viaggiare i libri anzichè le persone, creando centri di prestito nelle varie cittadine di fondo-valle, ove non di rado egli stesso si recava per recapitare e ritirare in capienti bauli i libri richiesti e quelli restituiti.
Fu in questo contesto che la città di Dronero tornò ad essere uno dei suoi luoghi privilegiati, come racconta la professoressa Elda Gottero in una sua dettagliata testimonianza riportata nel corposo e composito libro che il Comune di Cuneo ha patrocinato in occasione del 1° anniversario della scomparsa di Piero. (Tra libri e storia. Il percorso e l’eredità di Piero Camilla, L’Artistica Editrice, marzo 2013)
Roccabruna era il paese di origine di sua madre e la frazione di Norat é stata la sede del suo primo incarico di insegnante elementare .
Sempre sulle pendici della bassa valle Maira nel ’44 e ’45 si fu in contatto stretto con i gruppi partigiani GL.
Poi negli anni ’70 è spesso ospite gradito di quel Circolo giovanile che nel tornare a far rivivere la Biblioteca Civica di Dronero aveva uno dei suoi scopi principali;
Numerosi poi sono i suoi interventi negli incontri relativi alla pubblicazione degli Statuti della valle Maira e di Dronero. Infine accettò di sostituire dall’ 88 al ’92 Ezio Mauro alla direzione responsabile de “Il Drago”, di cui il presente periodico è la prosecuzione.
Anche queste piccole curiosità hanno trovato spazio nella relazione ufficiale alla cerimonia di lunedì 11 marzo, tenuta da Mario Cordero che di Camilla è stato prima stretto collaboratore e poi ne ha preso il posto, quando il direttore si è ritirato in pensione.
La testimonianza di Cordero è stata un elogio ad un tipo particolare di Cultura, quella che si alimenta di passione civile, dove il conoscere non è un fregio di cui ornarsi, ma una condizione fondamentale per vivere in rapporto stretto con gli altri.
Cordero scorrendo a volo d’uccello l’enorme mole di lavoro, sia organizzativo che divulgativo, operato sul patrimonio custodito negli archivi comunali ha individuato due emblematiche virtù che hanno guidato la sua opera: la passione per la libertà e quella che gli antichi chiamavano la “rusticitas”, cioè l’amore per la semplicità.
Quanto alla prima essa è ben evidente nella decisione di pubblicare “la più antica cronaca di Cuneo” di Giovanni Francesco Rebaccini ove si raccontano i fatti dei primi due secoli di Cuneo e del suo territorio intorno, individuandone la nascita in un insopprimibile desiderio di liberà che emerge dalle vicende scaturite da una rivolta contro il signorotto Caraglio che contendeva ad un giovane sposo lo “ius primae noctis”; di qui una una lunga ed alterna sollevazione sul finire del primo secolo dell’Anno Mille del contado tra Caraglio, Bernezzo e anche oltre che culminerà appunto con la fondazione di Cuneo.
Quanto alla “rusticitas” sia sufficiente riferire come varcando il portone della biblioteca subito si capiva se il direttore era in ufficio: bastava osservare se nell’androne ci fosse appoggiata al muro la sua vecchia bicicletta.

Danza sotto le punte

GiornataMemoria2013 Anche in montagna si balla ovviamente, e le nostre danze sono quelle d’oc, ovviamente. Ma danza moderna, o altri stili non se n’era ancora vista.

L’idea è di un ballerino di Piasco, Francesco Trovò che per pubblicizzarsi ha pensato di eseguire una serie di figure sugli spartiacque fra Maira, Varaita e Po e ricavarne un breve video di presentazione. Il giovane si esibisce in ardite figure di breakdance, ballo del ghetto americano che richiede perizia, fisico snodato ed età adeguata (sconsigliato agli aficionados delle courente…) nei prati di Elva, Battagliola e Oncino.
Non facile davvero eseguire figure acrobatiche su un terreno per nulla adeguato come un prato sconnesso, ora verdeggiante ora già secco (il video è stato girato il 20 settembre, a inizio autunno) anziché su una pista completamente piatta e con un certo grado di scivolamento, ma l’effetto è gustoso, specie davanti a uno scenario che va dal gruppo Chersogno-Pelvo al Monviso, o sotto un ponte in legno, o ancora un salto in una cascata. “È la mia scena preferita, il momento principale del video, l’acqua con le sue proprietà particolari è perfezione della natura” afferma il ragazzo, allievo della Julie’s School di Cuneo per tre anni, e altri due anni al Broadway Dance Center di New York (impossibile non andare in America se si vuole imparare quest’arte).
Il rapporto con la natura è il tema conduttore dell’esibizione intitolata «Future is nature», girato dai borgarini Alessandro Pepe e Nikolas Bianco con la casa di produzione EhKOfilms. “L’idea è mia, i miei amici mi hanno aiutato a realizzarla per esprimere il mio amore per la danza e la natura, cercando di comunicare qualcosa. Io studio ingegneria ambientale sperando di dare il mio contributo a preservare il sistema naturale, senza andare in politica ma cercando di passare il mio messaggio”. Una frase in inglese conclude il breve filmato (4 minuti, visibile su youtube): «In wilderness is preservation of the world» è tratta da H. David Thoreau, scrittore americano – uno che aveva capito tutto – nell’800 quando la parola «ambientalismo» non esisteva, identificandosi in romantico sentirsi parte della natura. “La «wilderness» è la parte selvaggia di noi che dobbiamo trovare, quella meno civilizzata, più a contatto con l’ambiente naturale e istintuale: sarebbe tutto più facile, una volta capito il concetto si comprenderebbero discorsi come inquinamento, etica del branco ecc. Non la società ma ciò che è stato prima di noi ci darà le risposte”.

M. Teresa Emina

facebook.com/pages/EhKO-FILMS

Campo di concentramento di Borgo San Dalmazzo

auschwitz Oggi non resta più traccia materiale del Polizeihaftlager di Borgo San Dalmazzo, presso Cuneo, che funzionò come campo di raccolta di ebrei, italiani e non, tra il 18 settembre 1943 e il 21 novembre dello stesso anno; e poi – sotto controllo repubblichino – dal 9 dicembre al 13 febbraio 1944.

Costituzione: settembre 1943
Chiusura: febbraio 1944
Ubicazione: Borgo San Dalmazzo (Cuneo)

Da questo Lager passarono circa quattrocento persone, delle più diverse nazionalità europee: per molte di esse il campo costituiva il punto di non ritorno di una fuga che durava ormai da cinque anni. Di lì, trecentocinquantadue ebbero come meta finale Auschwitz, cui sopravvissero, secondo le ultime ricerche, non più di dodici persone; due furono avviati a Buchenwald.

Tra questi “nemici del Reich” e della Repubblica di Salò – 148 donne e 201 uomini gli internati nella prima fase di attività del campo, 18 donne e 8 uomini, in prevalenza italiani, per la seconda fase – non mancavano i giovanissimi: 78 non arrivavano ai ventuno anni; sette di loro avevano meno di un anno di età. Ventisei erano gli ultrasessantenni (di cui tre ottantenni).

Gli italiani, tra coloro che subirono la deportazione in campo di sterminio, furono – per le ragioni che si vedranno più avanti – una stretta minoranza (ventitre su 354); gli altri, accomunati dalla persecusione razzista nazifascista, pur con la prevalenza di polacchi (119) e francesi rappresentavano un po’ tutte le nazionalità europee: ungheresi, greci, tedeschi, austriaci, rumeni, russi, croati.

La caserma nella quale era stato allestito il campo
Il campo era collocato in una caserma degli alpini intitolata ai “Principi di Piemonte”, a poca distanza dalla stazione ferroviaria e all’imbocco delle valli Gesso e Vermenagna. Oggi solo due epigrafi, a memoria degli eventi che si svolsero in quei mesi, ricordano la detenzione e la partenza dei convogli per Auschwitz, dopo il passaggio in altri campi di transito francesi (Drancy) o italiani (Fossoli e, in due casi, Bolzano).

La storia del campo si suddivide quindi in due periodi distinti, anche se molto ravvicinati nel tempo.

Prima fase: settembre-novembre 1943.

Con l’8 settembre e il disfacimento della IV Armata era venuto meno ogni controllo italiano sui dipartimenti della Francia meridionale occupati dall’esercito nel novembre 1942. La zona italiana, specialmene il nizzardo e le Alpi marittime, aveva accolto tra il 1942 e il 1943, con un sistema chiamato di “residenze forzate” o “assegnate”, ma che assicurava una complessiva anche se precaria sicurezza, diverse migliaia di ebrei non francesi rifugiati nella Francia meridionale e braccati dalla feroce persecuzione dei nazisti. Una di queste località di residenza fu il paese di St.-Martin Vésubie, nella vallata omonima, che finì per accogliere oltre mille ebrei di varie nazionalità sopravvissuti in relativa tranquillità fino alla data dell’armistizio.

La val Vésubie è collegata al Cuneese da due valichi alpini, percorsi all’epoca da strade militari che seguivano tracciati ben più antichi (vie del sale, strade di caccia reali): il colle delle Finestre e il colle Ciriegia, a oltre 2400 metri di altitudine. Per questi valichi, a partire dal 13 settembre, un migliaio di ebrei di St.-Martin cercò la salvezza, anche nella convinzione che l’armistizio facesse dell’Italia un territorio sicuro. Interi gruppi familiari, per un totale stimato intorno alle mille persone, raggiunsero così la valle Gesso e si riversarono sui paesi (Entraque, Valdieri) circostanti Borgo San Dalmazzo. L’esodo fu reso anche più drammatico dal fatto che si trovavano tra i profughi anziani e bambini, e comunque persone non abituate a percorsi di montagna. D’altronde chi era rimasto a St.-Martin fu prelevato dai nazisti al loro arrivo e immediatamente deportato.

Negli stessi giorni i nazisti occupavano Cuneo (12 settembre) e piccoli gruppi di antifascisti davano vita ai primi nuclei partigiani. Il 18 settembre un bando del comando SS intimava agli “stranieri…nel territorio di Borgo San Dalmazzo e dei comuni vicini” di presentarsi al “Comando Germanico in Borgo San Dalmazzo, Caserma degli alpini”. Trecentoquarantanove persone, soprattutto ebrei polacchi, francesi e tedeschi (ma anche austriaci, romeni, ungheresi e greci) si presentarono spontaneamente o vennero rastrellate e rinchiuse nei locali della caserma, mentre gli altri cercavano rifugio, in modo capillare, presso la popolazione delle valli; alcuni si unirono alle bande partigiane. Agli “stranieri” internati nel campo si aggiunsero per breve tempo gli ebrei di Cuneo, arrestati il 28 settembre ma poi rilasciati (non è chiaro per quale ragione) il 9 novembre.

Per due mesi gli internati della caserma vissero in un regime di segregazione priva del livello di violenza che caratterizzò altri centri analoghi. Un minimo di assistenza si ebbe grazie all’intermediazione di autorità locali e fu permessa la visita del vicerabbino di Torino. Anche le poche fughe riuscite non ebbero eccessive ripercussioni sulla condizione dei prigionieri. I malati ottennero l’autorizzazione al trasferimento negli ospedali di Borgo e – per i casi gravi – di Cuneo.

All’esterno del campo sorse una organizzazione sia per l’assistenza agli internati, sia per aiutare le centinaia di fuggiaschi dispersi nel territorio. Questi ultimi furono accolti da singole famiglie di valligiani o furono messi in contatto con una rete di soccorso che andava da Genova fino a Milano e alla frontiera svizzera, e che si valeva principalmente della collaborazione del clero locale. Parroci e viceparroci dei Comuni montani svolsero un capillare lavoro di assistenza e di collegamento coi gruppi partigiani e con la “resistenza civile” (ricorderemo, oltre a don Raimondo Viale, il “prete giusto” reso noto dal libro omonimo di Nuto Revelli, il viceparroco di Valdieri, don Francesco Brondello, recentemente riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” con una cerimonia svoltasi il 2 settembre 2004 nella sinagoga di Cuneo). Molti ebrei poterono così espatriare o spostarsi, grazie a documenti falsi, verso l’Italia Centrale: alcuni vennero nuovamente arrestati e deportati. Altri restarono in clandestinità nel territorio, per lunghi mesi spostandosi di valle in valle, spesso incontrando l’arresto o la morte; altri si unirono alle bande partigiane.

Per gli internati “stranieri” della caserma la sorte era comunque segnata. Il 21 novembre 1943, su ordine dell’Ufficio antiebraico della Gestapo di Nizza, furono condotti alla stazione; di qui, caricati su carri merci, avviati verso Drancy, via Savona-Nizza. Il loro numero (328 sui 349 ingressi) era diminuito da alcuni casi di fuga, da morti per malattia e dal fatto che i ricoverati all’ospedale di Cuneo vennero risparmiati (riusciranno a nascondersi con la complicità del personale). Diversa sorte toccò ai quarantuno malati ricoverati all’ospedale di Borgo, caricati sui vagoni insieme agli altri.

La maggior parte del gruppo partì poi da Drancy per Auschwitz meno di un mese dopo, il 7 dicembre; gli altri avrebbero seguito lo stesso destino nei trasporti del 17 dicembre e del 27 gennaio. La ricerca di Liliana Picciotto ha identificato 328 nominativi; se rimangono alcuni casi incerti, gli altri non deportati (rispetto ai 349 internati registrati in ingresso al campo) erano riusciti a salvarsi, con la fuga o in altre circostanze (si è già detto dei ricoverati all’ospedale di Cuneo). Non più di dieci persone arriveranno a vedere la liberazione.

Dopo la deportazione del 21 novembre il Polizeihaftlager di Borgo San Dalmazzo, rimasto vuoto, cessò temporaneamente la sua attività.

Seconda fase: dicembre 1943-febbraio 1944.

Nel giro di pochi giorni dalla chiusura del campo a gestione tedesca, la Questura di Cuneo, in applicazione dell’ordinanza di polizia n. 5 della RSI (a firma Buffarini Guidi), destinò la caserma al concentramento degli ebrei della provincia; le prime due internate, provenienti da Saluzzo, risultano rinchiuse il 4 dicembre 1943. Mentre gli ebrei di Cuneo e Mondovì riuscirono a mettersi in salvo, la comunità di Saluzzo (cui si erano aggiunti alcuni rifugiati da Torino) fu pesantemente colpita; singole persone, che vivevano in clandestinità, furono via via arrestate. Ventisei persone, in maggioranza donne, furono così internate nella caserma, sorvegliata e diretta da italiani.Anche questo gruppo, di cui si possiede l’elenco, non è omogene tre “stranieri” vengono probabilmente dal gruppo di St.-Martin Vésubie; due di loro sono padre e figlia (nata nel 1930). La più giovane ha 17 anni; i sessantenni sono tre. Il 13 gennaio 1944 la Questura di Cuneo dispose che i ventisei internati, 18 donne e 8 uomini, fossero “tradotti straordinariamente al campo di concentramento di Carpi (Modena)”, ossia a Fossoli. Le autorità italiane rispondevano così alle direttive dei nazisti, che, volendo raggiungere in tempi stretti un numero di prigionieri sufficiente a organizzare un trasporto ad Auschwitz, avevano sollecitato l’invio di internati. Il convoglio che partì da Fossoli il 22 febbraio trasportava così, oltre a Primo Levi, anche 23 dei 26 internati di Borgo (5 uomini e 18 donne). Di essi risultano immatricolate sei persone (quattro uomini e due donne).

Con questo trasporto venne a chiudersi definitivamente il campo di Borgo San Dalmazzo.

Un epilogo

Tragico ma emblematico epilogo, che si può scegliere per concludere l’intera vicenda, fu la sorte di sei ebrei arrestati fra il marzo e l’aprile 1945 tra Cervasca e Demonte e rinchiusi nel carcere di Cune due austriaci, due polacchi, un francese e un lussemburghese, giunti da St.-Martin quindici mesi prima. “Consegnati ai militi della B[rigata] N[era] il 25.4.1945”, come riporta il registro delle carceri, vennero fucilati dai repubblichini presso il viadotto Soleri lo stesso giorno, quando ormai le forze partigiane preparavano la liberazione della città: “L’ultimo eccidio di ebrei sul territorio liberato d’Europa, perpetrato da fascisti italiani”.

(Lucio Monaco)

Bibliografia essenziale
Per la vicenda nel suo insieme:
A. Cavaglion, Nella notte straniera. Gli ebrei di St.-Martin Vésubie, Cuneo, L’Arciere, 1981, 1991.
Giuseppe Mayda, Ebrei sotto Salò.La persecuzione antisemita 1943-1945, Milano, Feltrinelli, 1978.

Per l’organizzazione del campo e dei trasporti e le schede sui singoli nominativi:
Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano, Mursia, 2002

Molte vicende biografiche sono intensamente ricostruite in:
Adriana Muncinelli, Even. Pietruzza della memoria. Ebrei 1938-1945, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1994.

Voci enciclopediche:
E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi (curr.), Dizionario della Resistenza, II. Luoghi, formazioni, protagonisti, Torino, Einaudi, 2001, s.v.”Ebrei nella Resistenza”.
W. Laqueur, A. Cavaglion (curr.), Dizionario dell’Olocausto, Tortino, Einaudi, 2004, s.v. “Borgo San Dalmazzo”.

Santi,santini,santoun

BIM Ben prima che Babbo Natale, dio pagano degli ultimi secoli, irrompesse sulla scena del mondo opulento respingendo con perdite Gesù Bambino e i suoi straccioni, la vera festività era una certa… Natività. La stessa veniva come risaputo rappresentata fin dal lontano 1223 col presepe di s. Francesco. La funzione del presepe era di istruzione religiosa per popolazioni quasi del tutto analfabete e presentava visivamente – come anche nel caso delle vite dei santi – la grande vicenda a chi non aveva gli strumenti culturali per affrontarla secondo le Sacre Scritture. Da allora nelle case il presepe è come l’abete, un “arredo” indispensabile che “fa festa”.

Questa tradizione ha avuto diverse varianti a seconda dei luoghi, soprattutto per quanto riguarda i personaggi che circondano la Sacra Famiglia: in particolare nelle nostre montagne sia sul versante francese – la Provenza ha dei veri artisti nella costruzione del presepe – che italiano. Questi personaggi rappresentano persone di ogni estrazione sociale e sono legati non solo al periodo originale della Nascita alle tradizioni locali. Quindi accanto ai tradizionali Magi (i Rei) appare l’Oste che ha rifiutato ospitalità, il Matto del paese, donne e bambini (fremo e pichot). Numerosi i pastori (pastre), fra cui il famoso Gelindo, quello che vuole sempre andare a portare i regali ma poi trova tutte le scuse per tornare indietro, da qui il detto “Gelindo ritorna”; seguono gli altri mestieranti, immancabili i suonatori di fisa, ghironda e semitòun. Per non dilungarsi, basta leggerne le gesta sull’interessante libro di Guido Moro, “Presepe piemontese”.
In val Maira i presepi più antichi risalgono all’800, e non tutti potevano permetterseli; comunque la rievocazione della nascita di Gesù doveva essere di monito perenne, non circoscritto ad un periodo dell’anno. Quindi i pittori rappresentavano nelle chiese e cappelle la Storia Sacra guidando l’attenzione a simboli particolari, riconducibili anche alla più colta teologia. Alcuni esempi: talora Gesù appare in una grotta buia che si illumina, perché secondo tradizione nelle grotte nascevano le divinità pagane. Nell’affresco di San Peyre un s. Giuseppe (giustamente) dubbioso si appoggia alla mano, mentre a Elva guarda fuori da una finestra reggendo un piatto: certamente lo alleverà come un figlio, ma tanto soddisfatto non sembra… A s. Sebastiano di Marmora invece porta il paiolo, simbolo della vita familiare. Anche il colore degli abiti ha un significato preciso: rosso per la passione, azzurro per il cielo, tre stelle sul vestito di Maria (molte di più a Celle) per la verginità perfetta, prima durante e dopo il parto.
Gli animali, assenti nei vangeli canonici (come ha ricordato il papa attirandosi i mugugni dei tradizionalisti che subito hanno citato il presepe francescano) hanno una funzione: il bue è la mansuetudine ma anche vittima sacrificale nei riti pagani mentre l’asino, simbolo spesso negativo a volte indica anche la conoscenza. La mangiatoia è tipicamente provenzale e Gesù è talora fasciatissimo (Macra, San Peyre), talora nudo come a Elva e adagiato su spighe (Eucarestia), visione questa nord-europea a cui si rifaceva Clemer. Solo a s. Sebastiano di Marmora Maria è assistita da una levatrice, coi pastori sullo sfondo stupiti dell’evento o semplicemente addormentati, come coloro che accoglieranno o meno la Novella. Lo zampognaro Medoro (San Peyre, san Pietro di Macra) è tra i primi. A Elva durante la circoncisione Maria appare dopo quaranta giorni purificata dal parto, mente i Magi rappresentano i tre continenti conosciuti, su tre cavalli simbolici delle fasi del giorno. Elva è uno scrigno di rappresentazioni apocrife e non, come la strage degli innocenti e il miracolo del grano e della palma: il grano che ricresce subito dopo la fuga in Egitto per coprirne il passaggio, e la palma che rifocilla la Famiglia.
Questo e molto altro si può osservare con più attenzione durante il periodo natalizio, fatto non solo di doni e auguri ma anche occasione spirituale per i credenti e itinerario di scoperta culturale per tutti.

M. Teresa Emina

Angelo Brofferio

Angelo Brofferio Si è tenuto giovedì 15 novembre in quel cenacolo che è la saletta delle conferenze della Fondazione “Nuto Revelli” un incontro con Laurana Laiolo che all’interno di “Scrittoriincittà”, l’evento culturale che si è appena concluso a Cuneo, ha presentato l’ultimo suo lavoro di ricercatrice storica: una ricca biografia su Angelo Bofferio, vulcanico intellettuale e patriota piemontese, protagonista dei principali avvenimenti del nostro Risorgimento.

Una presentazione che forse avrebbe meritato di essere fatta a Caraglio, visto che Brofferio era stato eletto nel collegio elettorale di Caraglio alla prima Deputazione subalpina, il Parlamento nato dopo il varo dello Statuto albertino nel 1848.
Ma anche a Dronero, dove Brofferio nella primavera del 1850 era stato invitato da un certo Olivero , che avendolo sentito parlare a Caraglio lo aveva convinto ad illustrare ai Droneresi le famose “Leggi Siccardi” quelle che miravano ad abolire alcuni dei tanti privilegi di cui godevano allora gli ecclesiastici.
Non è dato sapere come i Droneresi di allora lo abbiano accolto; si sa però che la Caraglio di allora non solo aveva votato un democratico ma lo aveva addirittura portato in trionfo, rapita dalle sue idee, in un momento in cui la vita democratica dello Stato sabaudo muoveva i suoi primi timidi passi.
A portarlo in trionfo era quel popolo a cui Brofferio, originario di Castelnuovo d’Asti parlava in piemontese; è stato autore anche di innumerevoli canzoni, cariche di esigenze di giustizia e di uguaglianza sociale in grado di infiammare gli animi.
Un intellettuale la cui idea dominante era fondata sul fatto che la democrazia senza una diretta partecipazione del popolo non poteva esistere; quindi il popolo doveva essere messo nelle condizioni di sapere e capire.
Per questo motivo le sue iniziative passavano attraverso la parola scritta sui tanti giornali a cui egli collaborava; ma anche attraverso appunto le tante canzoni in dialetto e spesso accompagnate dalla musica della sua chitarra.
Di professione non faceva il musicista, faceva l’avvocato ed ha esercitato non solo nel foro di Torino, ma nel decennio tra il 1850 e ’60 si muoveva a difendere nei vari tribunali sabaudi chiunque fosse messo sotto processo per reati di opinione.
E’ stato un precursore delle battaglie per i diritti civili, in un tempo in cui (prima metà dell’800) i diritti per la gente comune non esistevano e quando, con lo Statuto Albertino, hanno cominciato a far capolino restavano prerogative in prevalenza dei nobili, del clero, e di pochi ricchi borghesi.
Fu nemico acerrimo di Cavour, avversato da Brofferio perché anteponeva, senza farsi troppi scrupoli, gli interessi espansionistici della monarchia sabauda, lasciando in disparte quelli complessivi di un’Italia tutta da costruire con il contributo delle tante diverse correnti patriottiche, da quella mazziniana a quella federalista del Cattaneo.
Anche Cavour lo avversò in tutti i modi e riuscì anche a fargli perdere nel 1853 il collegio di Caraglio; tornò però a sedere nella Deputazione subalpina qualche mese dopo in virtù di una elezione supplettiva, non più eletto a Caraglio, ma in un collegio di Genova.
Oppositore non solo di Cavour, ma anche del clero: famoso fu il suo discorso nel Parlamento subalpino contro il vescovo di Saluzzo, monsignor Giannotti, che per contrastare i tentativi del Governo piemontese di incamerare alcuni beni ecclesiastici e di istituire anche il matrimonio con rito civile, aveva emanato una pastorale di condanna in cui si accusava di empietà e settarismo i sostenitori delle idee liberali e dei diritti civili.
E’ proprio in questa occasione che venne apputo invitato a Dronero a spiegare le sue ragioni contro il vescovo di Saluzzo
Insomma un grande ed originale esponente della corrente democratica risorgimentale, che però nella storiografia ufficiale del nostro Risorgimento è sempre stato un protagonista, scomodo in vita e quasi ignorato dopo la morte.

I libri di Padre Sergio

il futuro siamo noi Da giorni sono in circolazione diverse e-mail che sollecitano la sottoscrizione della petizione “Salviamo 59.000 volumi dalla burocrazia e dal disinteresse”, creata il 28 Ottobre da “Biblioteca di Marmora”.
I promotori della petizione, il cui nome non compare, così descrivono la vicenda nel loro sito http://www.biblioteca-di-marmora.org/news.php:

“Nella magnifica Valle Maira, in provincia di Cuneo, c’è la biblioteca più alta d’Europa, a 1580 metri di quota. L’ha creata Padre Sergio De Piccoli, un monaco benedettino ed eremita che vive lì da trent’anni e che ha raccolto e conservato nelle cantine della canonica di Marmora, oltre 59.000 volumi.
Ma c’è un ma. Nel 2007 Padre Sergio ha donato tutti i libri al Comune di Marmora (Cn), in cambio della promessa dell’ampliamento della biblioteca, che è zeppa e quindi ha bisogno di spazio.
Il Sindaco si è impegnato in prima persona per la realizzazione della struttura, ma a tutt’oggi l’ampliamento promesso non c’è: troppa burocrazia e nessun soldo per la realizzazione e la querelle va avanti da anni. A fronte di una promessa non mantenuta, Padre Sergio rivuole i suoi libri. In tanti che conoscono Padre Sergio sarebbero disponibili ad aiutarlo privatamente per realizzare una biblioteca aperta al pubblico, purché i libri però tornino formalmente di sua proprietà (mentre ora, per effetto della donazione, sono formalmente di proprietà del Comune).
Chiunque abbia a cuore i libri e la cultura non puo’ che aderire alla nostra petizione: o il Comune si impegna a costruire la Biblioteca entro giugno 2013 o dia la possibilità alla comunità di avere comunque la sua Biblioteca.”

Non c’è dubbio che la loro campana suona forte e difficilmente lascia indifferenti.
Si capisce come alcuni di coloro che già hanno sottoscritto la petizione abbiano anche espresso forte indignazione verso gli amministratori di Marmora.
Ci è parso doveroso però sentire anche l’altra campana, quella del sindaco di Marmora.
La versione che ne da è ovviamente discordante. Cercheremo qui di riassumerla, in attesa che la confermi direttamente, magari a mezzo stampa.
Padre Sergio donò di sua volontà con atto notarile i suoi libri al Comune di Marmora, con la clausola che dovessero essere messi a disposizione della Valle, poiché l’edificio in cui si trovavano, e ancora si trovano, per motivi normativi, non può essere adibito a biblioteca aperta al pubblico.
D’altro canto il Comune, per poter ricercare i fondi necessari alla costruzione della biblioteca, deve risultare titolare dell’opera.
A quel punto, grazie anche all’intervento della Curia, si è proceduto all’acquisto del terreno necessario (circa 1500 mq.) e alla redazione di un progetto preliminare sulla base del quale si prevede un costo finale di circa 700.000 (settecentomila) euro.
La ricerca di finanziamenti presso la Regione Piemonte ed entità bancarie nei diversi anni ha ottenuto risposte negative con varie giustificazioni. Solo la partecipazione ad un progetto europeo (Alcotra) ha portato finora un finanziamento di circa 50.000 euro.
Il sindaco ammette che l’amministrazione è al momento ferma, non sapendo dove andare a bussare.
Se ci sono dei possibili finanziatori privati, ben vengano, afferma. D’altronde l’ipotesi avanzata da qualcuno che, se i libri ritornassero di proprietà di padre Sergio, alcuni mecenati sarebbero pronti a fornire il denaro necessario trova un ostacolo nel fatto che padre Sergio, in quanto benedettino, avendo fatto voto di povertà, non può ricevere quel denaro, ma il tutto dovrebbe essere messo in capo a qualcun altro.
Si consideri poi, fa notare il sindaco, che il solo valore venale dei libri, anche se venduti alle bancarelle dei mercatini, è di diverse decine di migliaia di euro. Una cifra che già da sola può far gola a qualcuno.
“Se ci sono dei finanziatori si facciano avanti, garantiremo loro tutto l’anonimato o la pubblicità che desiderano. Siamo i primi a voler realizzare il progetto.”
“No, fin che potrò lotterò perché quei libri siano in mano ad un ente pubblico, e proprio per rispetto verso padre Sergio.”
A voi la scelta se firmare o no. Ma non dite nulla a padre Sergio, a lui che si è ritirato in un eremo per non essere coinvolto nelle venali beghe del viver mondano. Fate che la sua anima non si macchi per rancori generati da qualche pagina di carta ingiallita, né che le nostre voci sovrastino il sommesso bisbiglio dei suoi libri.

D.C.