Mairaviglie

Mairaviglie Fra Stroppo e Caudano c’erano novemila passi di ragazzino, diciottomila contando anche il viaggio di ritorno. A ripensarci ora, che quella strada la facevamo da soli di notte, fa quasi paura. In certi passaggi correvamo sul filo del precipizio; ogni tanto sentivamo qualche piccolo sasso staccarsi, rimbalzare in mezzo alle rocce e poi sparire nell’abisso. Non arrivava neppure il rumore dell’impatto sul fondo, tanto era alto quel salto.

Noi però non ci facevamo granché caso, anche perché il buio nascondeva i pericoli, e veloci calpestavamo la neve e il ghiaccio, sforzandoci di vedere le prime case man mano che ci avvicinavamo.
Il lazzaretto era pieno degli spiriti di vecchi appestati e di lebbrosi. Bastava stare in silenzio per dieci minuti davanti alla facciata, a fissare nel cielo il gigante Orione con la sua spada scintillante, e le anime iniziavano ad uscire dai ruderi lente, appena luminose, simili alle nuvole quando le sorprende l’aurora. C’era l’eterna promessa sposa, portata via e ricoverata poco prima di andare all’altare, perché qualcuno aveva scoperto sul suo corpo gli inequivocabili indizi della lebbra. C’era il valoroso capitano di ventura, tornato vittorioso dalla sua guerra, celebrato con tutti gli onori la sera e la mattina portato a Caudano, con la febbre altissima e i segni della peste. C’era il vecchio prete che aveva pagato cara la sua ostinazione nel visitare i malati, nel confessarli e nel dar loro la comunione. A forza di comunioni, quelli avevano messo in comune con lui anche le malattie, e così anche il sacerdote aveva dovuto prendere casa nel lazzaretto.
A me piacevano gli spiriti degli appestati. Parlavano come se abitassero in un eterno presente. Il capitano di ventura credeva che i suoi uomini ancora lo stessero aspettando, di stanza a Paschiero; la promessa sposa si preoccupava di cosa stesse pensando il marito, visto che lei ci metteva così tanto ad arrivare; il vecchio prete continuava a ripetere che c’era la campana da aggiustare, che quella brutta crepa nel bronzo prima o poi le avrebbe impedito di segnare le ore.
Ma la cosa che più amavo sentire raccontare era la storia dello stregone. Nessuno, fra i ricoverati nel lazzaretto, era mai riuscito ad andar via. Guarire era impossibile, e impossibile era pure fuggire: la strada praticabile era una soltanto, e a metà c’era un drappello di armati che a turno tenevano sotto controllo il confine fra malattia e salute.
L’unica eccezione, l’unico che aveva lasciato Caudano da vivo, era stato lo stregone. Ma non era fuggito attraverso la strada, era passato “per di là”. E dicendo “per di là”, gli spiriti indicavano l’abisso. Un giorno l’avevano visto allontanarsi, camminando nell’aria, o forse su un filo invisibile, e attraversare tutta la valle così sospeso, fino all’altro versante, ai boschi intricati e freddi. Durante il suo passaggio attraverso il cielo, ogni tanto si era girato verso gli appestati, facendo qualche segno, come a dire “seguitemi”. Il vento pareva volergli strappare i vestiti di dosso, ma lui sorrideva, forse li chiamava.
Nessuno di loro si era mosso; erano tutti animali di terra, con i loro corpi pesanti, le loro vertigini, le zavorre delle loro malattie. Così erano rimasti al lazzaretto, mentre lo stregone era tornato libero. Da appestato, non poteva che vivere nascosto, e così aveva preso casa nei boschi. Il versante opposto, fino alla strada di Marmora, è quasi un deserto di alberi, un enorme labirinto: e là lui si era costruito una baracca sospesa, che penzolava da una quercia. Ogni tanto mandava loro dei messaggi attraverso il suo falco addomesticato, e tutte le sere accendeva il fuoco in un piccolo campo libero dagli alberi, cosicché lo potessero vedere.
Questa era la leggenda dello stregone, così come la raccontavano gli spiriti del lazzaretto. E siccome nessuno di noi ci credeva, loro ci portavano in un punto in cui lo sguardo potesse spaziare e ci indicavano il versante opposto. Nel buio della notte, si poteva vedere, in lontananza, il chiarore di un fuoco. “E’ ancora vivo”, ripetevano gli spiriti, “dopo molti secoli vive ancora. Dalla peste non si guarisce, ma uno stregone sa convivere con le forze del male”.
Ce lo dicevamo sempre, fra di noi, che avremmo dovuto organizzare una spedizione nei boschi in cui brillavano le fiamme notturne, per scoprire se ci fosse davvero lo stregone, o qualche altro essere o fenomeno strano. Perché un fuoco non si accende da solo, almeno non tutte le sere.
Qualche tempo fa, una sera, mi è ancora capitato di passare per Stroppo e aver tempo di camminare fino a Caudano. Sono stato al lazzaretto; nel buio, sopra la mia testa, brillavano le stelle di Orione. Ma gli spiriti erano pigri e non uscivano: li sentivo lamentarsi appena da dietro i muri. Lontano, però, il fuoco brillava ancora.
Così, parlandone fra vecchi amici, abbiamo deciso di rifare ancora una volta quella vecchia strada, stasera, e di organizzare finalmente la spedizione nel bosco, per scovare lo stregone, o chi al posto suo abiti sul versante deserto.
L’aria è limpida, la notte è stellata, e Caudano è bella e decadente come sempre. Ma dall’altra parte il fuoco non brilla più. Ci guardiamo tristi e pieni di rimpianto. Quanto tempo sprecato prima di decidere: forse lo stregone alla fine è morto. O forse noi siamo diventati troppo vecchi per parlare con gli spiriti e percepire la magia. O forse tutte queste cose insieme: qualcuno di noi già sente freddo, qualcuno pensa al lavoro di domani e vuole andare subito a casa.
Il capitano di ventura, l’eterna promessa sposa e il vecchio prete ci ascoltano silenziosi mentre andiamo via.
Per la prima volta non sono più tanto sicuri che torneremo a trovarli.

I libri di Padre Sergio

il futuro siamo noi Da giorni sono in circolazione diverse e-mail che sollecitano la sottoscrizione della petizione “Salviamo 59.000 volumi dalla burocrazia e dal disinteresse”, creata il 28 Ottobre da “Biblioteca di Marmora”.
I promotori della petizione, il cui nome non compare, così descrivono la vicenda nel loro sito http://www.biblioteca-di-marmora.org/news.php:

“Nella magnifica Valle Maira, in provincia di Cuneo, c’è la biblioteca più alta d’Europa, a 1580 metri di quota. L’ha creata Padre Sergio De Piccoli, un monaco benedettino ed eremita che vive lì da trent’anni e che ha raccolto e conservato nelle cantine della canonica di Marmora, oltre 59.000 volumi.
Ma c’è un ma. Nel 2007 Padre Sergio ha donato tutti i libri al Comune di Marmora (Cn), in cambio della promessa dell’ampliamento della biblioteca, che è zeppa e quindi ha bisogno di spazio.
Il Sindaco si è impegnato in prima persona per la realizzazione della struttura, ma a tutt’oggi l’ampliamento promesso non c’è: troppa burocrazia e nessun soldo per la realizzazione e la querelle va avanti da anni. A fronte di una promessa non mantenuta, Padre Sergio rivuole i suoi libri. In tanti che conoscono Padre Sergio sarebbero disponibili ad aiutarlo privatamente per realizzare una biblioteca aperta al pubblico, purché i libri però tornino formalmente di sua proprietà (mentre ora, per effetto della donazione, sono formalmente di proprietà del Comune).
Chiunque abbia a cuore i libri e la cultura non puo’ che aderire alla nostra petizione: o il Comune si impegna a costruire la Biblioteca entro giugno 2013 o dia la possibilità alla comunità di avere comunque la sua Biblioteca.”

Non c’è dubbio che la loro campana suona forte e difficilmente lascia indifferenti.
Si capisce come alcuni di coloro che già hanno sottoscritto la petizione abbiano anche espresso forte indignazione verso gli amministratori di Marmora.
Ci è parso doveroso però sentire anche l’altra campana, quella del sindaco di Marmora.
La versione che ne da è ovviamente discordante. Cercheremo qui di riassumerla, in attesa che la confermi direttamente, magari a mezzo stampa.
Padre Sergio donò di sua volontà con atto notarile i suoi libri al Comune di Marmora, con la clausola che dovessero essere messi a disposizione della Valle, poiché l’edificio in cui si trovavano, e ancora si trovano, per motivi normativi, non può essere adibito a biblioteca aperta al pubblico.
D’altro canto il Comune, per poter ricercare i fondi necessari alla costruzione della biblioteca, deve risultare titolare dell’opera.
A quel punto, grazie anche all’intervento della Curia, si è proceduto all’acquisto del terreno necessario (circa 1500 mq.) e alla redazione di un progetto preliminare sulla base del quale si prevede un costo finale di circa 700.000 (settecentomila) euro.
La ricerca di finanziamenti presso la Regione Piemonte ed entità bancarie nei diversi anni ha ottenuto risposte negative con varie giustificazioni. Solo la partecipazione ad un progetto europeo (Alcotra) ha portato finora un finanziamento di circa 50.000 euro.
Il sindaco ammette che l’amministrazione è al momento ferma, non sapendo dove andare a bussare.
Se ci sono dei possibili finanziatori privati, ben vengano, afferma. D’altronde l’ipotesi avanzata da qualcuno che, se i libri ritornassero di proprietà di padre Sergio, alcuni mecenati sarebbero pronti a fornire il denaro necessario trova un ostacolo nel fatto che padre Sergio, in quanto benedettino, avendo fatto voto di povertà, non può ricevere quel denaro, ma il tutto dovrebbe essere messo in capo a qualcun altro.
Si consideri poi, fa notare il sindaco, che il solo valore venale dei libri, anche se venduti alle bancarelle dei mercatini, è di diverse decine di migliaia di euro. Una cifra che già da sola può far gola a qualcuno.
“Se ci sono dei finanziatori si facciano avanti, garantiremo loro tutto l’anonimato o la pubblicità che desiderano. Siamo i primi a voler realizzare il progetto.”
“No, fin che potrò lotterò perché quei libri siano in mano ad un ente pubblico, e proprio per rispetto verso padre Sergio.”
A voi la scelta se firmare o no. Ma non dite nulla a padre Sergio, a lui che si è ritirato in un eremo per non essere coinvolto nelle venali beghe del viver mondano. Fate che la sua anima non si macchi per rancori generati da qualche pagina di carta ingiallita, né che le nostre voci sovrastino il sommesso bisbiglio dei suoi libri.

D.C.

Unione di Comuni

il futuro siamo noi Insanabile la frattura tra gli amministratori dei centri di fondovalle e quelli dei Comuni montani, in essere già da alcuni anni. Nell’ultima conferenza dei sindaci, a cui ha partecipato anche Sergio Foà, professore di diritto amministrativo all’Università di Torino, i primi hanno bocciato l’idea di un’Unione dei Comuni che sarebbe dovuta nascere sulle ceneri della Comunità montana Valli Grana e Maira, che cesserà di esistere a marzo del 2013.

Ad opporsi al progetto prospettato da Roberto Colombero, presidente dell’ente montano, sono stati i rappresentanti di Dronero, Caraglio e Busca, mentre quelli di Villar San Costanzo, Roccabruna, Cartignano e Bernezzo hanno preferito prendere ancora un po’ di tempo per decidere.
“Si sono opposti per questioni di carattere economico – spiega Colombero – abbiamo perso un’occasione e in questo modo diciamo addio ad una centenaria storia di comunità di Valle”.
“Ci siamo trovati di fronte a due ordini di questioni. – spiega il sindaco di Dronero Livio Acchiardi – In primo luogo Dronero non ha l’obbligo di associare i servizi, d’altra parte volevamo essere solidali con gli altri Comuni nell’interesse del territorio. Purtroppo, non saremmo stati in grado di sostenere il nuovo esborso economico. Si potrebbe poi valutare, in futuro, alcune convenzioni con l’Unione”.
Sulla stessa linea di pensiero anche il capogruppo della minoranza di Progetto Dronero Giampiero Belliardo che Colombero si è detto disponibile ad incontrare, insieme ai componenti di tutti i Consigli comunali della Valle Maira per discutere del progetto del nuovo ente.
“L’orientamento era quello di non entrare inizialmente nell’Unione, per vedere come si evolve la situazione – dice – ed evitare di essere troppo vincolati, con i numerosi problemi che ne seguirebbero”.
Lo scenario che attende la Comunità montana è, adesso, quello del commissariamento, con tutte le problematiche che questo concerne, anche per i dipendenti. Successivamente, sarà costituita una “mini” Unione formata dai Comuni a monte di San Damiano Macra in Valle Maira e da Valgrana in su in Valle Grana che raggrupperà, in totale, circa 3400 persone.
“Chi vuole può ancora cambiare idea – dice ancora Colombero – comunque non chiederemo l’elemosina a nessuno”.

Luca Chiapale

Proviamo a pensare in grande!

colombero Scrivere “io lo avevo detto” non è che aiuti a risolvere i problemi, ma dopo il fallimento delle Comunità Montane del Piemonte, che chiudono a fine anno, mi son riletto quanto nel novembre 2010 avevo pubblicato a proposito del loro nuovo assetto, a dir poco fantasioso, deciso in allora.

“… se le nuove Agenzie di Sviluppo (nuova definizione delle Comunità Montane) non funzionano non è per colpa delle persone che ora ne sono al comando, è semplicemente impossibile che un’organizzazione di questo tipo possa funzionare.
Il problema sta nel manico, hanno confini improbabili e non hanno una struttura operativa adeguata agli obiettivi dichiarati ….. sono convinto che occorra al più presto pensare di porre delle pezze, non possiamo permetterci il lusso di aspettare che il “mostriciattolo organizzativo” collassi per pensare a cosa metterci al posto.”
Il “mostriciattolo organizzativo” ora è inesorabilmente collassato e occorre pensare al più presto a cosa metterci al posto, provo a fare una riflessione partendo da lontano, dallo statuto catalano che nel preambolo recita “I poteri pubblici sono al servizio dell’interesse generale e dei diritti della cittadinanza, col rispetto al principio della sussidiarietà” ed è proprio la sussidiarietà la grande assente nel governo delle Alte Terre regionali.
C’è chi di sussidiarietà si è riempito la bocca, ma poi nulla è stato calato su un piano operativo per ricollocare al centro del sistema di governo montano il Comune ( non si può che ripartire da li!!) e da tempo vado affermandolo, convinto che la sussidiarietà sia la carta vincente.
Ripartire dal Comune vuol dire dare alla periferia piena facoltà decisionale di delega a livello superiore, questo è il solo modo per coinvolgere nuovamente le energie e le intelligenze locali, un percorso virtuoso perché un accorpamento fallimentare pensato e calato dall’alto non ha funzionato.
Una organizzazione è efficace se raggiunge obiettivi dati adottando strategie condivise, in tempi certi e con risorse note, sapendo che la strategia è arte di ordinare, sviluppare e impiegare le forze per conseguire la massima probabilità di raggiungere obiettivi realisticamente perseguibili.
Il nuovo modello organizzativo deve rispondere a obiettivi che vanno oltre alla sola amministrazione locale, bisogna porre le basi per dare rappresentatività ai territori montani nelle sedi legiferanti (regione e stato ), avere una dimensione territoriale che permetta una progettualità efficace, fornire alle nuove generazioni il bagaglio di saperi necessari….. In sintesi gli abitanti del monte devono tornare a decidere a casa loro sulle questioni che li riguardano, un obiettivo che si può raggiungere con aggregazioni che abbiano la potenza necessaria.
Intanto due anni sono stati persi nella pia illusione che reggessero le nuove Comunità Montane, sedicenti Agenzie di Sviluppo, e ora la “politica” è chiamata a trovare soluzioni in tempi brevissimi, ma è meglio che sia la “politica” locale a fare una proposta, quella centrale ha già dato il meglio di se al riguardo!!
Le strade possono essere due, una, forse la più semplice, è quella di creare aggregazioni di valle, puntare alle “piccole patrie” per mantenere in vita micro aggregazioni che rispondono in qualche modo a interessi di corto raggio, altro è guardare oltre all’oggi, pensare più in grande e proporre soluzioni che abbiano una prospettiva generazionale.
Penso a dimensioni che permettano la gestione del territorio con la “potenza” progettuale necessaria in un contesto che sarà sempre più competitivo.
Penso a soluzioni che abbiano confini che delimitino una comunità coesa, stessi interessi economici e sociali, connotazioni geografiche e storiche simili.
Penso a una aggregazione che abbia una potenza endogena sufficiente a far valere le proprie ragioni recuperando anche valori culturali e rapporti internazionali antichi.
Questo momento di crisi istituzionale può essere giocato in positivo e può diventare una occasione per pensare in grande a qualcosa che vada oltre asfittici orizzonti locali.
Per questo condivido e sostengo la proposta avanzata dal presidente della Comunità Montana Valle Maira Roberto Colombero di una Unione di Comuni che vada dalla valle Stura alla Valle Po’ e auspico che i sindaci coinvolti la facciano loro, è una sfida che vale la pena cogliere. Bene Roberto, vai avanti!!
Mariano Allocco, ottobre 2012. ; mariano.allocco@tiscali.it ; tel 335 7472434

La montagna vive di ampi spazi

colombero Un’interessante “provocazione” del presidente della Comunità Montana “Maira e Grana”

Roberto Colombero, presidente della Comunità Montana “Maira e Grana” ha provato a gettare la palla oltre l’ostacolo, in un momento di estrema incertezza sul futuro amministrativo del territorio montano, come anche di altri organismi amministrativi locali come le Provincie,
Con il prossimo gennaio gli Enti montani spariranno; al loro posto non ci sarà un altro Ente; semplicemente i Comuni, tutti i Comuni, montani e non, con meno di 3000 abitanti dovranno accorparsi tra loro per gestire insieme i servizi.
Ora siccome in montagna di Comuni con 3.000 abitanti dalle nostre parti non ne esistono è evidente che di fatto i municipi di montagna dovranno decidere con chi associarsi ed appare assolutamente impensabile che Castelmagno, Argentera o Acceglio pensino di potersi associare magari con realtà cittadine di pianura, come Fossano, Montanera o altre realtà con geografie ed esigenze totalmente diverse.
Ecco allora che Colombero lancia un’idea agli altri Comuni montani di una certa area omogenea, quella di unire tutta la montagna che si colloca ad occidente delle pianura cuneese e che ha come unico confinante dall’altra parte la Francia.
In pratica un’unità amministrativa unica di tutte le valli, dalla valle Po alla valle Stura, cioé in pratica l’intero arco alpino occidentale cuneese.
Ma l’idea di fondo di Colombero non è solo geografica, che pure é già importante: é essenzialmente quella di mettere insieme un territorio abbastanza omogeneo, ma soprattutto un territorio vasto e pesante dal punto di vista della posizione strategica, economica ed anche antropica, cioè abbastanza popolata, in modo da poter avere forza contrattuale nei confronti dei tanti poteri politici ed economici.
Insomma raccogliere le forze per pesare, farsi sentire, ma non ai fini di elemosinare qualche spicciolo, come sono state fino ad ora le Comunità Montane; ma porsi come un interlocutore autorevole e credibile agli occhi della Regione, ma anche della Comunità Europea, se è vero come è vero, che il nostro futuro si giocherà sempre di più nei vari organismi comunitari dell’Europa e sempre di meno a Torino e Roma
Una sfida anche però alla logica biecamente e miseramente gelosa del proprio campanile che ha da sempre contraddistinto l’agire delle, forse giustamente defunte, Comunitè Montane.
Colombero, magari anche consapevolmente, è arrivato a far proprio un modo d’agire politico che è stato appannaggio di grandi personaggi della storia: “agire localmente, ma saper pensare globalmente”.
Saranno altrettanto lungimiranti i suoi ex colleghi delle altre varie Comunità Montane del territorio cuneese?

Un “pezzo di carta” e una medaglia ai partigiani

guastavino Per noi partigiani e partigiane della Provincia di Cuneo il pomeriggio del 15 settembre 2012 rimarrà nel cuore come uno dei più belli ed emozionanti.

Alle 14,30 dovevamo trovarci, noi partigiani combattenti, a San Giovanni, in via Roma a Cuneo, per ritirare diploma e medaglia che ci venivano assegnati dal Direttivo e dai giovani dell’Anpi in occasione del 150° dell’Unità d’Italia. Occasione per cui l’Anpi ha ricordato le partigiane e i partigiani combattenti per la libertà, riconoscendo loro l’impegno dato per i valori sanciti nella Costituzione nata dalla Resistenza.

Momenti felici il rivedere vecchi amici e conoscerne di nuovi. Erano le 15 e i posti a sedere erano tutti occupati. Vidi mia figlia Cinzia scattare foto e dietro di lei il mio caro nipote Andrea vicino a suo papà Giorgio. Vedendomi mi salutarono con la mano. Momenti di grande emozione, come quando prese la parola il Sindaco di Cuneo Federico Borgna. Le sue parole: “È un onore essere qui con voi, avete dato la vostra giovinezza, siete le nostre pagine della Costituzione”. Dopo di lui presero la parola i miei amici partigiani Attilio Martino, Presidente Anpi Provincia di Cuneo, e Isacco Levi, il quale raccontò che, essendo ebrei, i tredici componenti della sua famiglia furono portati in Germania, da dove non tornarono.

Ancora emozione quando il nostro presidente Alessandro Mandrile fece il mio nome, invitandomi a ritirare diploma e medaglia. Avrei preferito che al posto di Eugenio avesse detto “Gino”, perché Eugenio mi è poco familiare, ma è il nome che mi hanno dato i mie genitori per ricordare la dolcissima nonna paterna che appunto si chiamava Eugenia. Nei momenti ufficiali è così.

Andai da Cinzia, che mi disse: “mettiti con Giorgio e Andrea, che faccio una foto ricordo”. Si unì a noi e mi trovai in mezzo a sei braccia che mi strinsero forte forte. Le braccia più corte erano quelle che stringevano di più. Momentiti magici, nei quali voglio ringraziare anche i giovani iscritti all’Anpi, perché anche loro hanno preso la parola dando prova di conoscere molto bene i valori della Resistenza. Ancora grazie, ragazzi, perché sarete voi quando l’ultimo partigiano sarà chiamato per l’ultima missione a tenere il faro acceso che con la sua potente luce illumini il mondo e non guardi il colore della pelle, se è bianca, nera o gialla. Suo compito quello di portare una parola che non conosce confini: LIBERTÀ.

Una libertà che tutt’oggi corre il rischio di essere soffocata, senza che molti neanche se ne accorgano. Eccone la prova, avvallata, come la medaglia e il certificato che abbiamo ricevuto a Cuneo, sempre da un uomo con la stessa fascia verde bianca e rossa. Perché tricolore è la fascia del sindaco di Cuneo e tricolore è la fascia del sindaco di Affile, provincia di Roma.

Cosa voglio dire? Sebbene quel certificato e quella medaglia abbiano avuto per noi un grandissimo significato di cui siamo orgogliosi quella festa è stata offuscata da una notizia giunta più o meno nello stesso periodo. Eccoci: mentre i miei pensieri erano ancora presi da quel bellissimo pomeriggio, tramite telegiornale e stampa appresi una notizia che fu come un grosso macigno cadutomi in testa. La stessa sensazione che penso abbiano avuto tutti coloro che hanno avuto parenti torturati, uccisi, impiccati dai nazifascisti. Riporto testualmente da L’Unità del 12 agosto 2012, testo recuperato dalla rete internet: “Un sacrario per il fascista Graziani con soldi pubblici. Il raduno in piazza San Sebastiano prima, la conferenza di don Ennio Innocenti a seguire, e poi la deposizione di una corona di fiori presso la tomba, santa messa, intervento delle autorità, cena a buffet e, per finire, spettacolo musicale. E tra le danze – una volta saziati anima e corpo – ieri sera ad Affile (comune della provincia di Roma, 1700 abitanti a 600 metri sul livello del mare) si è chiusa l’inaugurazione, all’interno del parco Radimonte, del sacrario dedicato al fu Maresciallo d’Italia e viceré d’Etiopia, Rodolfo Graziani.…”.

Ma la cosa che mi ha fatto ancora più male è che, tramite televisione, ho visto una giornalista fare una domanda a giovani e meno giovani, donne e uomini: «Tu sai chi è stato Graziani?». E nessuno sapeva nemmeno chi era.

Forse dirò un’eresia, forse una bestemmia, ma penso che noi che crediamo nella giustizia dobbiamo ringraziare sindaco e giunta per averci dato la possibilità di parlare di quel mostro fascista. Ecco chi fu: Graziani nacque a Filetto, in provincia di Frosinone l’11 agosto 1882 e morì di morte naturale a Roma l’11 gennaio gennaio 1955. Fu per tutta la vita un militare. Si fece tutte le guerre. Nel 1911 a soli 29 anni fu mandato in Libia a mettere un po’ di ordine, partecipò alla prima guerra mondiale con il grado di capitano, finita la guerra nel 1921 tornò in Libia, dove in Cirenaica era presente un forte movimento che reclamava l’indipendenza. A guidarlo era il “Leone del deserto” Omar al Mukhtar, che fu catturato e fucilato. Quando Mussolini per volontà del re prese il potere, Graziani si mise subito al suo fianco, rendendosi complice di orrendi omicidi. A fine 1935 – quando Mussolini mandò i suoi soldati alla conquista dell’Abissinia (oggi Etiopia), il cui re e capo spirituale era il Negus – con il grado di generale fu proprio il Graziani che, scalzando il generale Badoglio, prese il comando, dando subito ordine ai suoi ufficiali di non fare prigionieri ma fucilarli subito, anche perché quelle persone, donne, uomini, bambini, erano considerati solo dei “selvaggi”. Graziani distrusse quasi completamente Addis Abeba, massacrò la comunità cristiana copta, vescovo compreso e compì molte altre nefandezze. Vorrei ricordare ancora un fatto, per far capire specialmente ai giovani a che punto arrivavano gli ufficiali di Graziani. A guerra finita negli archivi fascisti fu trovato un diario relativo al periodo della guerra in Abissinia, nel quale si leggeva: “Oggi mi sono divertito da matti. Ho preso sei selvaggi, da poco catturati, li ho fatti spogliare nudi, e con la mia pistola ho fatto il tiro a segno mirando i loro testicoli. Caduti a terra, agonizzanti, li ho finiti con un colpo alla nuca”. Questi erano i valorosi ufficiali (italiani) di Graziani.

Ma secondo il re e Mussolini ne valeva la pena, perché in questo mdo l’Italia avrebbe avuto il suo impero. Il piccolo re sarebbe diventato il grande imperatore. Si diceva che da buon piemontese abbia detto: “boja faus, l’è bel esser imperatur!”.

Il maggiore assassino, però, Graziani, lo abbiamo avuto in casa nostra anche dopo. Infatti all’8 settembre 1943, ancora prima che il Duce venisse liberato dai tedeschi, questi si mise a fianco del generale tedesco Albert Kesselring. Una volta liberato grazie all’intervento tedesco, Mussolini fondò la famigerata repubblica di Salò e a Graziani diede il grado di capo dell’esercito fascista. In quegli anni a fianco dei tedeschi si rese complice di orrende stragi.

Anche nella nostra Provincia di Cuneo un grande tributo fu dato, cominciando da Boves (e vicino a noi in valle Maira a San Damiano e a Cartignano). Cercherò per ragioni di spazio di essere breve. Ricordo che i sette fratelli Cervi furono fucilati dai fascisti colpevoli di aiutare partigiani ebrei e disertori, ma le stragi più feroci furono a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema, ordinate dal generale tedesco Walter Beder. Là morirono oltre 2000 persone. Anziani, donne e centinaia di bambini.

Quando la guerra era perduta Graziani mollò il duce alla sua sorte. Fu catturato dagli Alleati nel quartier generale delle SS e nel 1948, dopo regolare processo, venne condannato a 19 anni di reclusione, ma grazie a condoni e amnistie 17 anni gli furono abbuonati. Scontata la misera pena non andò in pensione. Aderì al Movimento sociale (segretario un altro fascista, Giorgio Almirante, che fu anche segretario del giornale “Difesa della razza”) del quale divenne anche presidente onorario.

Dulcis in fundo il 26 maggio 2012 il comune di Affile (paese di 1600 abitanti a 80 km da Roma) ha dedicato a Graziani una piazza!

Penso che, essendo sindaco di Roma Alemanno, che proviene proprio da quel tipo di ambiente, se pur con tanta rabbia nel cuore, non dobbiamo stupirci.

A volte mi capita di parlare con i giovani di questi tristi fatti.

Devo ammettere con grande amarezza che tanti giovani mi rispondono: “Certo che quando avevate vent’anni eravate proprio cretini per morire per la patria. Che cos’è la patria?”. Certo che se penso come si trova l’Italia oggi, ottobre 2012, un po’ di ragione l’hanno anche loro…

Gino Guastavino

Figli di un Vallone minore

paglieres Cos’hanno gli altri che non ha Paglieres?

Ottobre dal caldo insolito e preoccupante, ma ricco come sempre di colori strabilianti; l’alta valle non offre più un ventaglio così variegato di sfumature, il giallognolo dell’erba si perde nelle brume: è il momento del riscatto della media e bassa valle, quella che resta sempre un po’ in disparte, intimidita. Più timido di tutti il vallone di Paglieres, così vicino al fondovalle eppure così lontano, misconosciuto, se non fosse per quella borgata di Moschieres di tradizione acciugaia, e i ricordi partigiani. Il torrente che lo taglia e che alimentava l’invaso si chiama rio di Paglieres fino all’entrata del bacino, e di Combamala all’uscita. Montagne boscose e incolte che sembrano chiudersi in un abbraccio soffocante (“«Coùmbomalo», valle incassata, impervia” M. Bruno).
Ma c’è una sorpresa alla testata della comba: improvvisamente si apre una radura e occhieggia un laghetto. Non ha un nome, lo chiamano lago del Gourc dal nome della grangia lì accanto. Lo si raggiunge comodamente in meno di un’ora di cammino tranquillo sullo sterrato che conduce alla grangia uscendo dall’asfaltata per Celle e girando a sinistra nell’abitato di Bedale. Non si trova su tutte le cartine ed ha avuto un momento di visibilità nel calendario 2011 di Bruno Rosano. Trattasi in verità di un antico sbarramento umano ma con metodi naturali (niente cemento, grazie) per convogliare le acque del rio a consumo del bestiame. Infatti in estate non è particolarmente invitante: una mandria e un gregge pascolano tutt’intorno. Ma in autunno è una festa: betulle, ontani, larici, abeti, sorbo e altre varietà arboree si specchiano in acque ricche di trote: un maestoso faggio sembra fare il guardiano, mentre le punte rocciose che segnano il confine con la valle Grana – Rocca Cernauda, m. Chialmo, m. Cauri – ricordano «gite» ben meno rilassanti durante la guerra. Merita una breve escursione fotografica di mezza giornata, volendo si può proseguire fino al colle della Margherita in val Grana, o il quasi omonimo colle s. Margherita di Moschieres.
Sorge una riflessione sul destino di questo vallone: perché così negletto? Fino a una dozzina d’anni fa la sua gloria era la diga, ormai una cattedrale nel deserto. L’Enel fa orecchie da mercante, evidentemente non la ritiene competitiva: eppure si scava per fare centraline altrove, e addirittura si sogna il faraonico progetto del maxi-invaso anziché riqualificare ciò che già c’è. Ma anche nel piano di recupero ambientale-paesaggistico delle borgate non c’è una lira. L’Unione Europea ha sganciato soldoni per i soliti noti: Elva, Podio, Chiappera che è già un gioiello, Morinesio che lo è diventato, Marmora che sembra il Trentino. A Paglieres chi ristruttura è un privato che ci mette del suo: il resto crolla. Il GTA prosegue in cresta senza scendere, il neonato sentiero del Cauri sfiora solo l’altro versante. Un po’ poverino il nostro Paglieres, ma con dignità.
Ci sono valloni e vallonastri.

M. Teresa Emina

Città e contado, un patto da riscrivere

citta_contado Due immagini si sovrappongono sovente nella mia mente, quella del mio paese alpino ora abbandonato e quella sempre uguale delle periferie di una qualsiasi grande città occidentale in cui il lavoro mi ha portato.

Sono la sintesi di un percorso dal medioevo al post moderno da cui prendo lo spunto per riflettere sul rapporto tra città e contado, di cui il Monte è parte
Le città, così come le viviamo ora, sono una evoluzione recente di un modello organizzativo vecchio di millenni, innescata nel XIIX secolo dalla prima industrializzazione.
Da allora l’inurbamento si è fatto imponente ed ha alimentato i consumi, la produzione di massa e la “società del benessere”, che per la Pianura Padana ha voluto dire la desertificazione delle Alte Terre che la circondano.
A livello globale tutte le aree urbane negli ultimi decenni sono cresciute in modo esponenziale ed è del tutto evidente che in un futuro prossimo tutto questo comporterà rischi significativi per gli abitanti, per l’ambiente e per la biodiversità, per il Nord Italia la situazione non è sicuramente diversa.
Non è un caso che si parli di “inurbamento” partendo dal lemma latino “urbs”, inteso come insieme di edifici e infrastrutture e non da “civitas”, che ha significato politico, organizzativo e geografico e riconduce al concetto di cittadinanza, una differenza che è sostanziale e caratterizza una deriva storicamente recente e legata all’affermarsi dei valori della civiltà occidentale.
Tutto questo non è connotato però da una solidità che possa far sperare in un avvenire sereno, l’occidente si caratterizza per una fragilità di cui ci siamo improvvisamente accorti l’11 settembre 2001, fragilità sempre più evidente con la crisi attuale, che non è congiunturale, questa è la prima crisi strutturale della modernità.
Nel secolo scorso c’è stata una rapida espansione urbana con enormi periferie degradate per le classi popolari, ora nelle città si è innescato un processo diverso, quello di una nuova stratificazione sociale che vede le classi medio-alte ristrutturare e occupare quartieri centrali, mentre le classi medio – basse si spostano in città satellite o più oltre.
La povertà, che negli anni ’50 era sui monti, ora è scesa a valle spostandosi in questi luoghi, ma è una povertà diversa, perché è senza quelle prospettive e speranze che accompagnavano l’esodo da quassù, ora non ci sono vie di fuga, le masse povere sono in un “cul de sac”.
La modernità aveva promesso il “benessere”, che però non ha coinciso con il raggiungimento della felicità personale, una questione molto più complicata e per un cittadino la tranquillità, l’aria pulita, una passeggiata nei boschi o un bagno al mare per staccare da ritmi e luoghi frenetici e stressanti, sono diventati una necessità e si è disposti a spendere quanto basta per una evasione settimanale da ambienti sempre più invivibili.
Ma veniamo a situazioni a noi prossime, torniamo in Piemonte con le sue pianure, colline e montagne.
Se in altri contesti geografici la metropoli mettono a disposizione verde pubblico, parchi e spazi aperti nel contesto urbano, in Piemonte questa necessità è meno sentita perché il verde, la pace e l’ambiente incontaminato è fruibile a pochi chilometri da casa, nelle Alte Terre che circondano una pianura completamente antropizzata e contaminata.
Questo porta il “Piè” a guardare al “Monte” come a un luogo di sfogo, come a una pertinenza che a tutti i costi si deve cercare di mantenere incontaminata ( almeno quella !!!), ovvio perciò che l’attenzione sia posta sull’ambiente e non sull’uomo che lo vive.
L’ambiente in pianura è ormai irrimediabilmente perduto, perciò preservare i monti è il modo per lavare la cattiva coscienza collettiva, perché allora non farne un unico grande parco naturale?
Due metri e due misure sono allora utilizzati dalla politica di gestione del territorio, uno per la pianura, dove è stato possibile disporre dell’ambiente senza alcuna limitazione, un’altro per il monte, dove l’attività umana è tollerata quasi come una presenza inopportuna.
Se a questo si aggiunge che le popolazioni alpine non sono assolutamente rappresentate nelle istituzioni a tutti i livelli, perché, con le regole attuali, sono le città a eleggere la quasi totalità dei rappresentanti, va da se che nella catena di comando questa impostazione “ambiente – centrica” prevale e gli interessi delle popolazioni alpine sono completamente esclusi.
Guardate che qui sta l’inghippo che va risolto.
Non ci troviamo di fronte a un confronto tra pari, ora sta tornando in modo evidente un confronto tra città e contado dai connotati medioevali e per un montanaro definirsi cittadino sta diventando un ossimoro.
Riflettendo dal Monte su quanto sta succedendo, mi pare però evidente che in questo momento storico paradossalmente chi rischia di più è la città ed è urgente porre le basi per un nuovo patto per recuperare assieme quella dimensione di “civitas” che una modernità effimera ha negato al monte e cancellato dalle città.
E’ solo unendo le forze tra due realtà che sono andate allontanandosi negli ultimi decenni che possiamo pensare a un avvenire possibile.
L’interesse è reciproco, non sarà facile, ma non vedo altre strade.

Mariano Allocco

Nuovi dirigenti scolastici a Dronero

frutteto Dal 1° settembre, 25 nuovi dirigenti scolastici hanno preso servizio in altrettanti Istituti scolastici della Provincia di Cuneo. Si tratta di una parte dei 172 dirigenti che hanno superato il concorso in tutto il Piemonte e dei quali il MIUR (Ministero dell’Istruzione) ha autorizzato l’assunzione, esaurendo i posti disponibili in Regione.

La conferma delle nomine è stata formalizzata con una circolare diffusa proprio alla vigilia di Ferragosto (nella giornata di lunedì 13 agosto) dall’Ufficio scolastico regionale.

I nuovi presidi sono andati a coprire quelle situazioni che nel Cuneese costringevano un unico dirigente scolastico a seguire due o più scuole diverse. Situazioni che si sono verificate anche per più anni negli istituti di molti centri sia nella Scuola primaria, sia nella Media inferiore e sia nelle Medie superiori.
Anche Dronero, sede di due direzioni, quella Didattica di Piazza Marconi (Scuola primaria) e l’Istituto comprensivo Giolitti (Scuola media) – cui erano stati assegnati dirigenti in reggenza rispettivamente Silvano Calcagno, dirigente a Robilante e Dronero e Maddalena Gerardi, dirigente a Borgo San Dalmazzo e Dronero – ha avuto le sue assegnazioni definitive con dirigenti titolari.
Il dr. Graziano Isaia, di Piasco, si occuperà del Circolo didattico di Dronero cui fanno capo la Scuola primaria di Dronero capoluogo, Oltremaira, Pratavecchia, Villar San Costanzo, San Damiano e alta Valle e quella dell’Infanzia di Dronero capoluogo, Oltremaira e Morra Villar.
Al dr. Paolo Romeo, cuneese, figlio d’arte poiché il padre Carlo è stato a lungo vice Provveditore agli studi e poi dopo il pensionamento Giudice di Pace a Dronero, invece è stata assegnata la gestione dell’Istituto comprensivo Giolitti cui fanno capo la Scuola media di Dronero, la sede staccata di Stroppo, la Scuola primaria di Roccabruna e la Scuola dell’Infanzia sempre a Roccabruna.
Per gli amanti delle statistiche possiamo dire che l’età media dei dirigenti vincitori di concorso è relativamente bassa (48 anni), tenuto conto di quella media degli insegnanti, che a livello nazionale, nella scuola italiana, è stimata in oltre 50 anni.
In particolare il dirigente del Circolo di Piazza Marconi, Graziano Isaia (che ha ottenuto un altissimo punteggio, classificandosi al 2° posto assoluto in Piemonte), appena trentacinquenne è il più giovane tra i dirigenti cui è stata assegnata la sede. Appena sotto la media nazionale anche il dirigente dell’Istituto comprensivo, Paolo Romeo.
A loro – consapevoli del fatto che i problemi non mancheranno, visto l’atteggiamento dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni nei confronti della Scuola – vadano i nostri migliori auguri di un proficuo lavoro.

S.T.

Colombero boccia la Bocciofila

frutteto Meglio investire sull’Alberghiero e il College di Stroppo

E’ stato interamente incentrato sul progetto del nuovo bocciodromo dronerese il Consiglio della Comunità montana Valli Grana e Maira di giovedì 20 settembre.
Oggetto di discussione era la proposta di delibera della giunta presieduta da Roberto Colombero di chiedere alla Cassa depositi e prestiti di devolvere solo una parte del denaro (177.165 euro dei 400.000 euro stabiliti inizialmente) destinato al Comune di Dronero quale quota di finanziamento per la costruzione della “cittadella delle bocce” ad altri interventi.
Denaro, senza il quale, il Comune di Dronero dovrà, probabilmente, dire addio ad una nuova bocciofila.
Nel 2006, l’ente montano, presieduto da Livio Acchiardi si era impegnato a cofinanziare la costruzione della cittadella delle bocce, che avrebbe ospitato anche un museo dedicato a questo sport. Il progetto, avanzato dall’allora esecutivo dronerese guidato da Giovanni Biglione, prevedeva una spesa complessiva di 3.500.000 euro. Il Comune di Dronero avrebbe stanziato 700.000 euro, mentre i rimanenti 2.400.446,03 euro sarebbero arrivati dal ministero per i beni culturali (1.618.446,03 euro) e dalla Regione Piemonte (782.000 euro).
In questi sette anni, il mutuo contratto dalla Comunità montana è costato 140.000 euro e del nuovo bocciodromo non è stata posata nemmeno una pietra.
Nel marzo di quest’anno, la giunta dronerese ha abbandonato il progetto iniziale della cittadella delle bocce e approvato lo studio di fattibilità per una nuova bocciofila, più piccola, da 1.500.000 euro. Perso il contributo del ministero (perché è stato eliminato il museo tematico), rimarrebbero i soldi della Regione, quelli dell’ente montano e quelli del Comune, ridotti, però, a 368.000 euro.
“Visto che il progetto è diverso da quello iniziale – ha spiegato Roberto Colombero – credo sia corretto discuterne in Consiglio. E’ giusto che noi partecipiamo con la stessa percentuale di denaro stabilito inizialmente (11,43% del totale ndr) e non con 400.000 euro, anche perché Dronero riduce il suo cofinanziamento. L’atteggiamento di Acchiardi è arrogante. E poi, Dronero, adesso, ha solo uno studio di fattibilità”.
Sulla stessa linea il sindaco di Prazzo Osvaldo Einaudi: “E’ scorretto come si sta comportando il Comune di Dronero”.
Cosa farne dei soldi non più destinati alla bocciofila?
“Ci sono altre priorità – ha continuato Colombero – come l’ampliamento dell’Alberghiero a cui la Provincia non può fare fronte o l’acquisto di un pullman per il trasporto degli studenti al College di Stroppo. Se Dronero perde l’Alberghiero potrà avere anche 12 bocciofile, ma sarebbe un disastro”.
La pensa così anche il consigliere di Acceglio Enrico Colombo: “Credo sia meglio investire sulla scuola piuttosto che su una bocciofila”.
Il Consiglio ha quindi stabilito di rinviare di alcune settimane la decisione, dopo aver analizzato il progetto preliminare del nuovo bocciodromo ed avere la conferma della firma dell’accordo di programma tra il Comune di Dronero e la Regione Piemonte per lo stanziamento del contributo.

Luca Chiapale